La sfida del burqa

Fa discutere in Spagna l'apertura al divieto di indossare il burqa nei luoghi pubblici. Per SALVATORE ABBRUZZESE non può essere una scelta dettata da esigenze di ordine pubblico

La possibilità, per la Spagna, di rivedere le proprie leggi sul burka in relazione alla frequentazione di spazi pubblici, fornisce l’occasione per posizionare in un contesto decisamente diverso il problema dei diritti di espressione del proprio credo attraverso comportamenti e stili espliciti. In Spagna il problema è infatti costituito dalla tutela dell’ordine pubblico. Coprirsi il volto – con il burka, ma anche con il casco integrale o con il passamontagna durante le manifestazioni – è ritenuto un comportamento che può nascondere, almeno in alcuni casi, una strategia di occultamento della propria identità e quindi, proprio per questo, risultare pericoloso.

Eppure – al di là dell’evidenza di un tale principio – il problema va ben al di là di quello che il normale buon senso sembra risolvere. Veramente è possibile credere che il problema sia di semplice ordine pubblico? Si tratta veramente di un confronto tra una norma di abbigliamento orientata dal credo religioso e una regola di comportamento pubblico aperta ai necessari controlli di polizia?

Il volto in Occidente non ha alcunché di banale. La nostra cultura, profondamente segnata dalla religione cristiana e quindi dalla fede in un Dio incarnato – un Dio che, prima di ogni altra cosa, ha mostrato il proprio volto – fa di quest’ultimo e dello sguardo che lo caratterizza altrettante dimensioni determinanti della relazione. La nostra cultura, cresciuta all’interno dell’iconografia cristiana, è maturata essenzialmente dentro l’attenzione al volto ed allo sguardo. Senza una tale sensibilità non solo la nostra arte pittorica – con i vari Antonello da Messina, Raffaello, Leonardo, Caravaggio – avrebbe avuto ben altre forme o forse non sarebbe semplicemente esistita, ma la nostra stessa spiritualità si sarebbe sviluppata in modi totalmente diversi, sostanzialmente privi di quell’affettività primaria dove i volti di Gesù, della Vergine e dei santi sono stati per secoli i testimoni del nostro dialogo silenzioso e privato con Dio. 

Nulla di più lontano dalla cultura islamica dove il divieto di dipingere immagini, tanto di Dio quanto del profeta Maometto, ha sviluppato all’opposto un’arte dei segni, una grafica straordinaria che va appunto sotto il nome di “arabesco”. L’affezione ad Allah passa attraverso la preghiera pubblica, la proclamazione orale ed a voce alta delle virtù che lo definiscono, l’unione potente e indissolubile con la comunità. Essa non transita attraverso l’affetto sensibile ad un Dio fatto persona, ad un Dio fatto carne (lo stesso pensarlo è sconcertante). Proprio per questo la divergenza di sensibilità non potrebbe essere più radicale e l’attenzione al volto è il suo centro.

Ora, è proprio nel prendere atto di queste differenze profonde che emerge la piena inconsistenza – ed anche la drammatica pericolosità – di una metafora come quella dello choc culturale. In una prima accezione un tale termine indica infatti una vera e propria impossibilità della comunicazione, mentre in una seconda accezione ne dichiara invece il carattere non essenziale, purché i diritti di ogni credo siano tutelati.

In un caso come nell’altro le culture sono giustapposte l’una accanto all’altra: la comunicazione o è impossibile o è inutile, o è entrambe le cose allo stesso momento. Le culture sono equiparate a delle vere e proprie camicie di forza nelle quali ciascuno di noi entra precludendosi, a partire da quel momento, qualsiasi confronto reale e dove l’unica soluzione sembra risiedere nel sottrarre ogni particolarità dirompente, fino a non averne nessuna. 

Matura così il sogno di un Occidente culturalmente neutro, senza più culture né religioni ma dotato solo dell’attenzione al governo ed all’organizzazione ottimale di beni e servizi; dove ogni altra cultura può costruire il proprio universo personale senza dover rendere conto a nessuno delle proprie ragioni. Il mondo multiculturale trova come condizione ottimale per la propria stessa esistenza una società implicitamente secolarizzata e culturalmente neutra, animata solo da una razionalità strumentale per la quale non ci sono che problemi di pura organizzazione e tutela.

Si abbandona così la vera soluzione, che è quella del confronto continuo tra culture che imparano l’una dall’altra, dove ciascuna sa “dare ragione della propria speranza” e ciascuna entra nell’Aeropago portando le proprie ragioni. Per secoli è avvenuto questo, per molti uomini avviene ancora: è una strada più difficoltosa, ma anche più autentica.

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