La corazzata Potjomkin

Il continuo ripetersi di una visione in bianco e nero, l'eterno ritorno del manicheismo storico che mette tutte le colpe da una sola parte impediscono la riconciliazione. MARTA DELL'ASTA

Girare per Odessa, grande città portuale sul Mar Nero, vuol dire avere sotto gli occhi “splendori e miserie” del passato: sontuosi palazzi liberty o di fine ‘800 accanto a relitti sovietici fatiscenti, splendidi viali di platani e pavé scalcagnati, tombini aperti.

La storia si è impressa nelle cose, qui, in maniera ancor più evidente che altrove, dove la ricostruzione è riuscita a spianare le stratificazioni. E il paesaggio urbano lancia messaggi di per sé chiarissimi, che quasi nessuno oggi sa più decifrare.

Per questo, non è a caso che proprio a Odessa, una docente di filosofia della locale università, Oksana Dovgopolova, abbia sentito l’urgenza di interrogarsi sulla nostra capacità di ricordare, e di trarre lezioni dal passato. Ne è nato un convegno, La cultura della riconciliazione: la nuova coscienza storica dell’Ucraina, tutt’altro che formale o accademico, dove gli interventi andavano a toccare ferite aperte, nervi scoperti dell’esperienza comune.

Si è incominciato con un tour della città attraverso i luoghi della memoria ufficiale, e in una città giovane come Odessa, fondata solo nel 1794, questi luoghi sono legati soprattutto alle vicende rivoluzionarie del 1905 (il famoso ammutinamento della corazzata Potjomkin) e a quelle tremende della Shoah, della seconda guerra mondiale, in questa città per un terzo ebraica.

E durante questo giro, incredibilmente istruttivo, si è visto come anche a Odessa, apparentemente così indipendente, scanzonata, ironica, dove anche il regime comunista era una cosa “sui generis”, la malattia della coscienza rende incapaci di guardare semplicemente in faccia i fatti reali della storia, senza il supporto di leggende nere o dorate. La corazzata Potjomkin, di cui probabilmente sappiamo l’esistenza più per la battuta di Fantozzi sull’omonimo film che per conoscenza storica, è l’esempio più tipico della storia mitizzata e piegata alle esigenze dell’ideologia: il monumento mostra gli eroici marinai ribelli che strappano il telo che li copre per guardare in faccia il plotone d’esecuzione, ma i fatti dicono che l’episodio non si svolse così, né lì né sulla famosa scalinata, dove il regista Ejsenštejn collocò una grandiosa strage di massa, con la famosa carrozzina che precipita. Tirate le somme, risulta che la memoria collettiva e il monumento eternano non il fatto storico, ma il mito creato dal film, che resta un capolavoro anche se fu commissionato da Stalin proprio per crearlo, il mito. 

Il continuo ripetersi di una visione in bianco e nero, l’eterno ritorno del manicheismo storico che mette tutte le colpe da una sola parte e semplifica la visione della realtà fino a renderla totalmente altro, ci impediscono un passo di fondamentale importanza che è la riconciliazione, la pacificazione della memoria attraverso il perdono. La retorica sovietica (ma pensiamo anche a quella che finisce per ridurre certi momenti della nostra resistenza) non ammette che si umanizzi il nemico, che lo si possa perdonare, esige invece odio e contrapposizione irriducibili. 

“Papà uccidili!” invoca un bimbo da un terribile manifesto di guerra nel museo sulla resistenza partigiana a Odessa: questa impostazione, che sembra rafforzare lo spirito di belligeranza, non è archiviata, si ripropone in varianti attuali perché fa parte anch’essa della corruzione della coscienza di cui ci si deve liberare. Il “sacro furore”, il “giusto odio” ammantati di nobiltà sono una malattia dello spirito che invade ancora e ancora la società civile, alla quale certi maestri augurano la fine dei tempi di pace che “rammolliscono i cuori”.

Gli ucraini raccoltisi a Odessa per parlare di memoria, professori, studenti, uomini della strada, hanno mostrato l’enorme coraggio morale di chi, pur aggredito da un nemico esterno, non vuole cadere in questa polarizzazione del bene e del male, e cerca di ripartire da un serio esame di coscienza. Qui in città, è stato detto, abbiamo il viale dei “giusti delle nazioni”, un centinaio di persone che hanno rischiato la vita per nascondere gli ebrei. Ma possiamo autenticamente celebrare questi giusti, rendergli veramente onore, dimenticando che accanto a questi giusti ci furono centomila odessiti che denunciarono gli ebrei alle autorità naziste? Centomila denunce… un fatto del genere non può essere semplicemente rimosso, non sarà mai definitivamente chiuso, continuerà a corrompere le coscienze sino a che la verità non sarà guardata in faccia, giudicata, riconciliata. 

E il perdono, è stato anche detto, ha una dimensione squisitamente personale, senza l’io non può avvenire neanche tra le nazioni. “La ricchissima esperienza del XX secolo — ha detto il russo Nikolaj Epplé — non diventa un contravveleno in automatico, ci vogliono uno sforzo costante di autodeterminazione della persona, una disciplina che permetta di conservare la dimensione personale”. Il compito dell’interpretazione, ha aggiunto Aleksej Sigov di Kiev, non ha niente a che vedere con la manipolazione, significa invece lasciare sempre aperta la possibilità di guardare lo stesso fatto da un diverso punto di vista, per comprenderlo di più. Perché non si finisce mai di capire, come scriveva Berdjaev: “la verità è un compito infinito”.

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