Il ponte di Camus

Mai come oggi è facile ridurre l'attenzione verso i poveri ad uno stereotipo natalizio. Occorre invece che ogni gesto diventi incontro e relazione continua. SALVATORE ABBRUZZESE

L’attenzione verso i poveri, intesi come sintesi tra emarginazione sociale e miseria materiale, costituisce un’esortazione costantemente riproposta dal pontefice e puntualmente recepita dai media. Rispetto ad un tale invito ed alla sua frequente ricorrenza l’immagine della Chiesa di Santa Maria in Trastevere trasformata in salone delle feste, con i poveri a tavola serviti dai volontari della comunità Sant’Egidio, sembra costituirsi come una vera e propria icona di questo tipo di sollecitudine così costantemente raccomandata. 

Tuttavia, una volta inserita nel contenitore mediatico che l’ha prontamente diffusa, è facile ridurla ad una delle immagini natalizie delle quali l’audience televisiva ama circondarsi durante queste feste, là dove la supposta magia del Natale sembra rendere tutto possibile. La figura del povero davanti alla tavola imbandita, quasi sempre anziano, stupito e riconoscente di tanta abbondanza e di tanta sollecitudine nei suoi confronti, pare stemperare i drammi molteplici che si nascondono dietro l’indigenza materiale: l’immagine è consolatoria e l’universo mediatico non manca di amplificarla.

Ma si tratta veramente di una rappresentazione retorica e fuorviante? È veramente una raffigurazione di comodo, buona a occultare la persistenza dell’indigenza prossima ventura? Veramente la fiaba della cena di Natale ai più poveri non va più lontano della semplice immagine consolatoria e riassicurante?

Per prendere sul serio una simile iniziativa vale la pena ricordare come il Natale sia una festa familiare, dove ci si rincontra nel proprio nucleo costitutivo e quest’incontro coincide con la tavola imbandita. Escludersi o essere esclusi da quest’ultima è segno di un Natale mancato, di una festa che non si è mai concretamente percepita. 

Ma la tavola non è solo la certezza del piacere dei cibi e dei vini, non si limita affatto alla soddisfazione del buono gustato in un luogo confortevole. Prima di essere tutto questo la tavola rappresenta la pienezza delle relazioni, è incorniciata dalle strette di mano, dai saluti e gli abbracci. Nessuno sperimenta il piacere di una cena seduto da solo al tavolo di un ristorante o di una mensa, al contrario ciascuno vive proprio in quel momento l’essenzialità della condivisione. Il Natale coincide quindi con l’incontro del quale la tavola, la mensa condivisa, è il tramite essenziale.

Nella chiesa di Santa Maria i commensali hanno allora scambiato qualcosa di molto più importante — e vitale — del piatto da assaporare o del vino da gustare. Il vero bene percepito e apprezzato è stato quello della relazione.  

È in questo senso che va raccolta l’osservazione di Julián Carrón sul Corriere della Sera del 23 dicembre, là dove questi coglie tutta l’importanza della dimensione relazionale nel rapporto tra i profughi e chi li assiste.

Esiste, in altri termini, una vera e propria cultura relazionale che l’universo del volontariato (cattolico ma non solo) sta elaborando sul piano dell’accoglienza: il cuore di ogni gesto di carità risiede essenzialmente nella relazione che si instaura concretamente tra chi assiste e chi riceve i benefici. Senza di questa ogni piatto di minestra è inutile, così come ogni obolo è fuorviante.

Ciò getta una luce problematica sulla mendicità da strada, spesso realizzata simulando malformazioni, lamentando traversie di ogni genere, biglietti da viaggio persi o da acquistare; magari puntando sulle donne e, in modo particolare, su quelle anziane. Se la tavola di Santa Maria in Trastevere non è solo il pasto caldo, ma anche l’accoglienza, il conforto di un’assistenza ed il piacere delle nuove relazioni; la mendicanza da strada, spesso collegata al racket, si rivela essere molto frequentemente l’esatto opposto: l’infermità simulata, i dati falsati, la situazione inventata, l’identità nascosta e quindi la relazione fittizia.

L’universo associativo che si sta prodigando nei confronti delle fasce più povere e marginali sta di fatto percorrendo l’unica strada realistica di aiuto all’altro: quella che transita per l’incontro, cioè per la relazione significativa con chi è nel bisogno e nell’impossibilità di soddisfarlo. 

Se la miseria, come diceva Albert Camus, è una fortezza senza ponti levatoi, la relazione autentica con l’altro è la strada essenziale per riaprire una tale fortezza al mondo. Occorre allora che ad ogni gesto di carità faccia seguito una relazione destinata ad andare avanti, portando allo scoperto potenzialità e possibilità di ciascuno, assieme alla consapevolezza dei propri limiti. Senza una tale relazione ogni gesto, nella migliore delle ipotesi, resta inefficace e si riduce ad un’inutile anche se consolatoria scorciatoia. 

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