Un mondo nel cuore

Una serata a teatro a vedere ex carcerati, malati di mente, persone sofferenti che riescono a esprimere quell'umanità che persiste nel cuore di tutti. GIORGIO VITTADINI

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole”: è tutto contenuto in questo verso della canzone “Un matto” di Fabrizio De André il senso di un modo diverso di guardare malati psichici, carcerati ed esclusi di ogni genere. Non problemi da gestire, magari con surplus di buonismo natalizio, ma uomini e donne, giovani e vecchi, che invece la cosiddetta “marginalità sociale” può paradossalmente spingere a tirare fuori il meglio di sé e a presentarlo su un palcoscenico. Così, i malati del Museo d’arte Paolo Pini hanno preso in prestito la storia di povertà, ingiustizia, riscatto e redenzione dei Miserabili di Victor Hugo, per rimpossessarsi del loro cammino personale e riscoprire quella parte di sé che la sofferenza aveva gettato in un angolino sperduto del cuore. E i carcerati del Gruppo Trasgressione del carcere di Bollate hanno imparato a suonare e cantare per raccontare il lavoro di restauro che svolgono in carcere o la collaborazione con la Croce Rossa, simbolo della volontà di ripagare il male fatto.

Sono questi solo due esempi tra la quindicina di performance che il dott. Gabriele Catania, psicologo del Dipartimento di salute mentale dell’Ospedale Sacco e presidente dell’Associazione Amici della mente, ha voluto per la seconda rassegna di Arte negletta, andata in scena nello scorso weekend al Teatro di Milano.

Assistendo allo spettacolo, ad ogni persona e gruppo che si avvicendava sul palco, non si poteva fare a meno di chiedersi: cosa fa sì che persone in situazioni così difficili – per scelta o per destino – tornino a guardare se stesse con tenerezza e siano in grado di esprimersi in modo artisticamente così convincente?

Non è facile rispondere e comunque non tutto si può aggiustare o cambiare, come mostra l’ultima lettera di Virginia Wolf prima del suicidio, letta con tanta passione: “Sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi”.

“Stare male – dice un altro performer, mentre un violino lo accompagna in sottofondo – contiene una forma di ribellione verso se stessi, verso quella mancanza di equilibrio che non fa più stare bene, e quindi è una leva al cambiamento”. Alla possibilità di cambiare, di riscoprire il proprio mondo nel cuore, tutti quelli che sono saliti sul palco sembravano dare un convinto credito. Anche con ironia e senza farsi sconti. Cosa è la timidezza? Un’ipocrisia, “un muro che si erige tra sé e gli altri”. La gentilezza? Un modo per “astenersi dalla vita, come dire, sono fuori dal gioco, vi capisco ma non partecipo”. I sensi di colpa? L’illusione con cui affermare la propria esistenza.

Senso esistenziale e meccanismi mentali hanno un nesso difficilmente indagabile ma indubitabile, cosa che il dott. Catania da anni cerca di mettere in luce con i suoi pazienti utilizzando anche l’opera di Fabrizio de André. Sul palco alcuni artisti hanno cantato alcune parodie di canzoni dello scomparso cantautore genovese per esprimere esperienze di disagio psicologico. La cosa interessante è che i testi tracciano percorsi di consapevolezza ma anche ipotesi di superamento del disagio. La canzone Don Raffaé diventa Don Miché e affronta il problema di un’insonnia grave legata ad antiche esperienze di abbandono; “Quello che non ho” diventa “Quello che ti do”, denuncia dell’uso e abuso di stupefacenti e farmaci a cui viene contrapposta una nuova responsabilità verso se stessi.

Anche se si fa in fretta a stabilire chi è ai margini e chi no, in realtà non c’è un “dentro” e un “fuori”, un normale e un non normale. Ci sono mondi personali da far rivivere.

Nella natura umana di tutti, inquieta, scomoda, a volte scassata, sta la chiave per attraversare i mari in tempesta. Per questo non è strano che proprio persone “escluse” ma autentiche, riescano a svelare la grandezza di ciò che abbiamo dentro, a mettere a nudo l’“io” di tutti.

L’uomo è molto di più di ciò che fa e dei suoi meccanismi mentali. Il problema è non cercare di addormentare quel “guazzabuglio” che è il nostro cuore. E non “far finta di essere sani”, come cantava Giorgio Gaber…

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