I santi non sono matti

La Scala apre la stagione con l'opera di Giuseppe Verdi dedicata a Giovanna D'Arco, definita "pazza" dai registi dell'opera, Moshe Leiser e Patrice Caurier. Un falso. PIGI COLOGNESI

Dal Corriere della Sera del 30 novembre, pagina 39, vengo a sapere che la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi – che stasera apre la stagione operistica della Scala di Milano – vede come protagonista una «eroina complessa, ambigua, pericolosamente contemporanea». Siccome sono abituato a pensare che le parole abbiamo un preciso significato, mi soffermo un attimo per capire meglio questo tre aggettivi. 

La Giovanna d’Arco storica (non ho qui lo spazio per raccontare una vicenda abbastanza nota e su cui è comunque facile informarsi) è stata senz’altro una figura «complessa»; basti pensare alla stranezza di una ragazza che si mette a capo di un esercito e al suo inimmaginabile successo militare, oppure basta riflettere sul suo destino di condannata al rogo per eresia e dopo pochi decenni riabilitata da un tribunale ecclesiastico non asservito al potere politico e infine, nel 1920, dichiarata santa. 

Il fatto che venga definita «contemporanea» non mi dice nulla di significativo; solo non capisco come lo possa essere «pericolosamente» (ma lo capirò leggendo il resto). Quanto al suo essere «ambigua» penso ci si riferisca alle molteplici interpretazioni (non sempre fedeli alla storia) che nei secoli sono state offerte della sua vicenda.

Evidentemente mi sbagliavo perché immediatamente dopo la frase che ho citata si apre un virgolettato dei due registi dell’opera verdiana (Moshe Leiser e Patrice Caurier) dove non c’è un filo di ambiguità: «Giovanna pazza lo era davvero». Letteralmente così, con certezza granitica, senza alcuna sfumatura e, ovviamente, senza addurre nessuna prova. Ma – scrive il quotidiano milanese – «i registi ribadiscono»: «Pazza come sono certe mistiche o le isteriche. Come lo era Bernadette Soubirous, che alla stessa età di Jeanne, 13 anni, vedeva la Madonna». I milioni di pellegrini che vanno a Lourdes si sveglino: è un gigantesco manicomio a cielo aperto. 

Le affermazioni dei due registi sono roba molto vecchia: la letteratura e la pubblicistica francese dell’Ottocento ne sono zeppe. Solo che, appunto, sono passati due secoli e non si fa bella figura a presentare come audaci scoperte delle posizioni che risalgono al più ottuso e sorpassato positivismo. Ecco allora la trovata «pericolosamente contemporanea», quella che i nostri borghesi e pudibondi bisnonni non osavano ammettere, ma che i geniali registi coraggiosamente offriranno agli spettatori: «Il groviglio di eros e follia della protagonista». Anche in questo caso, però, arrivano tardi: sono parecchi decenni che le messe in scena teatrali titillano la morbosità degli spettatori, che il nudo viene esibito senza alcuna reale necessità (per l’allestimento di quest’opera i registi arrivano al ridicolo affermare che una «intera chiesa gotica ricostruita sull’originale» è l’estremamente ovvio «segno fallico del potere»; superdotati sti francesi!).

Vecchia brodaglia riciclata, dunque. Su cui – confidando nella musica di Verdi, che era un po’ mangiapreti ma non sciocco – sorridere un po’ amaramente. Magari rileggendo le sferzanti righe che in proposito scriveva – oltre un secolo fa, appunto – Charles Péguy: «Ci sono degli uomini che credono che le voci di Giovanna d’Arco siano state delle allucinazioni. In questo sistema Giovanna d’Arco sarebbe, è una allucinata. Cioè, non fuggiamo le parole, una matta. La nostra tesi, la voce della nostra ragione è (e non solamente il grido del nostro cuore), che la santità è la sanità stessa; che i nostri santi non sono dei matti; particolarmente che non sono degli allucinati. Che i nostri santi sono sani».

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