Ucraina, la “parola magica”

I russi in questi giorni pensano tutti alla stessa cosa: quel 9 maggio che segna la vittoria su Hitler. Il fatto è che oggi in Russia è sempre colpa di qualcun altro. MARTA DELL'ASTA

I russi in questi giorni pensano tutti alla stessa cosa, perché a nessuno oggi è dato pensare ad altro che non sia il grande giubileo che si approssima: quel 9 maggio, giorno della vittoria sul nazismo (o sul “fascismo”, come si dice qui) che è assurto a momento assoluto di orgoglio nazionale, a distillato della dignità e grandezza russe. Nella vulgata attuale l’arrivo dell’Armata Rossa a Berlino equivale a un gesto salvifico di portata universale: “abbiamo salvato il mondo da Hitler”, il male assoluto; e questa azione messianica pone la Russia al di sopra di ogni critica e di ogni errore. Eppure ci sono stati anni, sotto il vecchio regime, come ricordano alcuni anziani, che il 9 maggio non era neanche giorno di festa. Cosa vuol dire il cambio delle “priorità culturali”…

Allo stato attuale delle cose, la “priorità culturale”, ovvero politica, vuole che si sfrutti il 70° della vittoria come momento di catarsi e di ricompattamento nazionale; dove l’aggettivo “nazionale” va capito sino in fondo: esclusivamente nazionale. Ma questo riscrivere la storia “privatizzando” la vittoria del 1945 — fino a chiamarla “guerra patriottica” e non mondiale, come se non ci fosse stata che l’Unione Sovietica, annullando il ruolo del fronte occidentale, o il sostegno del Lend-Lease americano all’Urss, trasformando una vittoria di tutta l’umanità in una vittoria “nostra e solo nostra” — è la spia di un ampio processo psicologico e culturale che preoccupa molti intellettuali e semplici cittadini russi.

È la spia di un ritorno totalitario, non innanzitutto ai vertici della politica, ma nella mentalità corrente, nella vita d’ogni giorno: la gente, appunto come in un sistema totalitario, smette di giudicare con la propria testa,  smette di confrontarsi realmente a livello di società civile, rinuncia ai vecchi legami naturali, e si affida a un Grande Fratello onnipotente che detta nuovi legami, nuovi valori identitari. Che l’occasione del giubileo si rivestisse di mandati politici importanti, come rinfrancare il paese di fronte alla crisi economica, puntellare l’identità russa, rinsaldare la coesione interna, si può capire. Ma è la passività della gente, la gregarietà del pensiero che preoccupa gli osservatori più acuti: “le masse sono pronte”, commenta un professore su Facebook: basta dire la parola magica e cominciano a odiare.

Oggi la parola magica per realizzare questa operazione di nuova aggregazione è “Ucraina”, ma non è tanto il contenuto che importa, quanto piuttosto il fatto che i cervelli hanno smesso di ragionare, di sceverare in modo critico le informazioni, di esprimere giudizi personali, e le persone hanno smesso di condividere valori universali come libertà, rispetto, dignità. La tristezza e la preoccupazione che attanagliano molti russi hanno dato la spinta a riprendere il filo del pensiero antitotalitario, che prende le mosse dalla Arendt e da Solzenicyn, ma incarnato nella realtà attuale; ed è un pensiero che può rivolgersi indistintamente all’Est come all’Ovest.

In tanti si chiedono: perché torna lo stalinismo? E perché, potremmo aggiungere noi, da tante parti in Occidente si auspica un governo forte che elimini i problemi, la corruzione, le decisioni difficili e renda tutti morali d’ufficio? Si dice spesso che è perché “abbiamo abbandonato i valori cristiani” cui apparteniamo, ma questa diagnosi globale è ancora troppo semplice, non ci spiega in che modi cediamo al fascino della forza, alla paralisi della ragione, come mai ci siamo invischiati in scelte, in meccanismi che ci rendono meno che umani.

C’entra l’odio, secondo alcuni amici russi, l’odio che trova necessariamente il capro espiatorio su cui riversarsi, in modo che la colpa sia sempre di qualcun altro. Andrej Desnickij dice di aver visto in molti oppositori di Putin lo stesso furore dogmatico, lo stesso attaccamento a un qualche “ismo”, sia pure diverso, che c’è nel presidente; e c’è da credere che, una volta arrivati al potere, sarebbero pronti ad essere altrettanto spietati nel difendere le proprie posizioni. Non è l’oggetto del contendere (o il valore che difendiamo) a determinare la mentalità totalitaria, ma lo stile della polemica: si può essere ideologici e persino totalitari anche nel difendere la libertà, la dignità della persona e i più alti valori familiari.

Ma l’odio, osservano altri, è legato al sentimento dell’offesa di un uomo che, avendo perso la coscienza di sé, del proprio valore infinito, si sente non solo inferiore e mediocre, ma anche profondamente e “ontologicamente ferito”. Un uomo di questo tipo, essendo incapace di qualsiasi creatività, cerca nel potere solo la possibilità di vendicarsi su ampia scala, di tutto e di tutti.

La storia attuale è piena di simili “umiliati e offesi”, e allora, si chiede Aleksandr Archangel’skij, che fare? E risponde: c’è sempre una possibilità creativa, dettata dalla libertà e dalla dignità dell’uomo e non all’offesa o al risentimento; quando a Mosca avevano rifiutato le avanguardie artistiche, Chagall creò a Vitebsk un centro mondiale. Invece di fare crociate contro le violazioni della libertà e della dignità che si moltiplicano ogni giorno, la proposta è di mostrarne il fascino.

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