L’odore delle pecore

Pasci le mie pecore, custodiscile, guidale, nutrile” disse per ben tre volte Gesù a Pietro. Gesù, che ama autodefinirsi il Buon Pastore, Colui che dà la vita per noi che siamo le sue pecore.

Un’ espressione singolare quella usata da papa Francesco verso i pastori, eppure è già entrata nel linguaggio comune. Aver l’odore delle pecore significa conoscerle una ad una, accorgersi quando la sera ritornati all’ovile ne manca una alla conta. E qui entra in scena Gesù che ama autodefinirsi il Buon Pastore, Colui che dà la vita per noi che siamo le sue pecore.

L’ecumenismo, cioè la sete struggente che il gregge sia uno sotto un solo pastore è il desiderio, il progetto che animò gli ultimi pontificati, ritornando a ciò che disse per ben tre volte Gesù a Pietro: “Pasci le mie pecore”, custodiscile, guidale, nutrile. E’ uno struggimento che nasce dalla misericordia, dall’amore personale, non dalla preoccupazione del numero, ma dell’unità, dell’unico ovile. Il prete che ha l’odore delle pecore è sempre “in uscita” alla ricerca di quelle perdute, impigliate nei rovi del mondo, belanti e sanguinanti.

A quanti pastori Gesù rivolge la domanda che un giorno rivolse a Pietro in quella notte d’angoscia: “Simone, dormi?” (Mc 14,37). La domenica del buon Pastore è nel cuore del tempo di Pasqua come un monito e nello stesso tempo una carezza. Colui che ci invita a vegliare sul gregge è lo stesso che dà la vita per noi.

Quante volte Gesù avrà visto pastori con le loro greggi camminare tra le colline della Galilea o attraversare i deserti di Gerico, della Samaria e della Giudea, tra i profumi e le fragranze del bel cielo di Palestina, e l’azzurro del mare; camminando vicino a queste greggi sentiva l’odore delle pecore: qualche volta avrà accettato dai pastori latte e formaggio per sfamare i suoi discepoli, ma, come ogni uomo, anche a Lui venivano le idee e la visione delle greggi gli si stampò nel cuore come la più familiare, la più umile, la più adatta per indicare il compito dei pastori in cura d’anime, non come lupi che abbandonano le pecore, non come mercenari a cui non importa nulla delle pecore, ma pastori buoni che le conoscono e che a loro volta sono riconosciuti, pastori che danno la vita.

Quanti sono ogni anno i pastori martiri! Non si accontentano di avere un piccolo gregge, ma spingono lo sguardo lontano, a quelli che vivono come pecore senza pastore. Il Giubileo della misericordia indetto dal pontefice sarà anche il tempo in cui tante persone ritorneranno all’ovile. Mentre scrivo queste righe mi trovo nel monastero delle suore Trappiste di Vitorchiano, vicino alla cappella dedicata alla Beata Maria Gabriella Sagheddu, morta a 25 anni, dopo aver offerto al Signore la sua vita per l’unità della Chiesa. Fu proclamata Beata da San Giovanni Paolo II nel 1983.

In un cassetto della scrivania trovo sei libriccini che raccontano le storie dei martiri cistercensi del nostro tempo, come la tragica storia della famiglia Lob: tre fratelli e tre sorelle morti ad Auschwitz; il beato Giuseppe Cassant, i martiri di Algemesì e di Viaceli, il beato Cipriano Tansi, i martiri di nostra Signora della Consolazione e di Nostra Signora della Gioia in Cina, i sette frati di Thibirine in Algeria, massacrati nella notte del 26 marzo 1996… Non si finirebbe più di ricordare i martiri del nostro tempo fino a monsignor Oscar Romero o al beato don Giuseppe Puglisi. Da pochi giorni sfilano migliaia di pellegrini davanti alla Sindone di Torino.

Contemplando quel Volto si comprende fino a che punto la vita di tanti pastori coincide con quella di Cristo. C’è un’ultima osservazione da fare, forse la più importante. Essere pecore che seguono il pastore non significa sminuire il significato della persona. Forse siamo rimasti solo noi cristiani a riconoscere il valore assoluto della persona.

La cultura contemporanea preferisce pensarci come individui, pretendendo di misurare tutto con il totem della libertà individuale. I nuovi diritti che vengono declamati oggi sono concepiti come un inno alla libertà individuale che viene prima di ogni cosa. Noi però non siamo puri individui, siamo persone, vale a dire in relazione con altri, con l’Altro da sé. E’ nella maternità che esplode la grande bellezza di questo essere persona e non individuo.

Il bambino nel grembo della madre non può vivere senza la relazione con la madre. E’ solo nell’essere persona che scopriamo la dimensione della felicità, solo nel rapporto con Colui che ci ha voluti e ci ama personalmente. Ciò che ci fa sentire veramente liberi è l’essere in due: l’io e l’altro. Per questo una sola pecora è tutto di fronte al pastore.

Questa domenica diventi per ciascuno di noi la domenica della felicità possibile sentendoci persone uniche e irrepetibili. E il nostro diritto sia prima di tutto il diritto a vivere e la più grande libertà da tutelare è quella dei soggetti più deboli: bambini, malati, anziani.

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