Sindone, vedere e toccare

Sabato a Torino è iniziata l'ostensione della Sindone che sta attirando un gran numero di pellegrini. Il sacro telo è un riferimento importante per i fedeli. Commento di PIGI COLOGNESI

L’ostensione della Sindone sta richiamando a Torino un gran numero di pellegrini; è gente di tutti i tipi: fedeli semplici che vogliono venerare, anche solo per pochi secondi, quell’immagine così straordinaria che Cristo crocifisso e risorto ha impresso sul lino; curiosi attratti dalla inspiegabilità di questa antica reliquia; atei che riconoscono in quel volto una inarrivabile icona del dolore umano; scettici cui però le presunte smentite scientifiche della contemporaneità con Cristo del lenzuolo torinese non paiono sufficienti; turisti interrogati dalla debordante pietà mostrata dal popolo cristiano.

È stato osservato che tutti, comunque, sono presi dal silenzio quando entrano in duomo. A provocare questa muta sorpresa è il fatto che la Sindone proclama senza mediazioni, senza complicazioni, con una semplicità disarmante, il messaggio centrale del cristianesimo: la «visibilità» di Dio. «La vita si manifestò, noi l’avviamo veduta» scrive Giovanni nella sua prima lettera. La vita di cui parla è quella «eterna», cioè quella vera, quella che dà significato a tutte le vite; è la vita di un Dio che era anche uomo.

Il corpo martoriato impresso sulla Sindone ci ricorda questa straordinaria novità del cristianesimo, che è anche il desiderio di ogni persona autenticamente religiosa. Chi giunge alla certezza della esistenza di Dio come ultima spiegazione della vita e del suo destino non riesce a fermarsi lì: vorrebbe «vedere» il suo volto, come chiedeva Mosè. L’altro giorno un sacerdote di una parrocchia semi periferica di Milano ha raccontato questo episodio. «Ieri mattina ero qui in chiesa – era deserta perché non era orario di messa – e mi si avvicina un giovanotto di circa venticinque anni. “Padre, mi dice, ho bisogno di confessarmi”. “Prego, si accomodi nel confessionale” gli rispondo. Ma lui non si muove dalla panca su cui è seduto e mi dice: “Non posso. Sa, sono musulmano”. Resto stupito, poi mi siedo di fianco a lui e ascolto quello che ha da dirmi. Mi racconta tutti i suoi numerosi peccati e poi conclude: “Capisce, padre, perché sono venuto da lei? Io credo in Dio, ma come faccio ad essere sicuro che mi perdona?”».

Quel giovane islamico aveva bisogno di vedere concretamente la mano di Dio che lo accoglie in un abbraccio fisico, come ha fatto il padre con il figlio prodigo; aveva bisogno di constatare concretamente il perdono; aveva bisogno di non lasciare la divinità in una lontananza che alla fine sfuma in dubbio e non può dare pace di fronte alla imponente concretezza del proprio male. Non conosco, se c’è, la teologia islamica del perdono e non mi interessa fare paragoni o stabilire graduatorie tra le religioni. Ma l’episodio rivela quanto sia impressionante e avvincente la carnalità del cristianesimo.

Ci avviamo verso l’Anno Santo della misericordia: ecco, essa non è un vago sentimento di bonomia pacioccona, bensì l’inaudita offerta di un perdono inimmaginabile, immeritato e visibile.

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