Il venerdì santo e il miracolo nella mia famiglia

Oggi, venerdì santo, è il giorno in cui tutte le fatiche dell’uomo sembrano emergere alla luce della coscienza, e con loro alcune domande capitali. GIORGIO VITTADINI

Oggi, venerdì santo, è il giorno del supremo sacrificio del Signore, della sua morte in croce. E’ il giorno in cui tutte le fatiche dell’uomo sembrano emergere alla luce della coscienza, e con loro alcune domande capitali: come si può sperare quando ci sono male, violenza, ingiustizia, crudeltà? Come si può non essere annichiliti di fronte a tanti fatti tragici e a tanto dolore innocente? E cosa fare di quel diffuso male di vivere che molti avvenimenti sembrano generare nel profondo di noi stessi? Il venerdì santo è un giorno speciale quindi perché ci permette più facilmente di andare oltre le nostre distrazioni e superficialità quotidiane.

E così può capitare anche di porre mente alla testimonianza discreta, silenziosa che, nel corso dei secoli, milioni di persone “normali” hanno dato nella loro vita: non un’illusione sentimentale o un’esaltazione superficiale, ma la fiducia indomabile e costante per quell’uomo appeso alla croce, capace di generare gioia anche nel dolore più grande.

Qualche anno fa, dal fondo di una vecchia scrivania, ho trovato un foglio dimenticato, scritto a mano, con scrittura nervosa. Era il testamento spirituale di mio nonno, scritto cinquant’anni prima e vent’anni prima della sua morte, non per essere pubblicato e diffuso, ma quasi per non essere trovato: una sorta di confessione intima agli angeli di Dio e al Signore.

Ecco il testo: “Oggi 12 luglio 1963, nel pieno possesso di tutte le mie facoltà mentali, intendo disporre le mie volontà per quando il Signore vorrà richiamarmi a sé. Innanzitutto intendo morire nella Religione Cattolica apostolica Romana nella quale sono nato e vissuto e nella quale ho trovato sempre l’unico sostegno e l’unica forza motrice della mia vita spirituale. Domando al mio Angelo Custode che mi assista negli istanti supremi e mi accompagni dinanzi alla Maestà di Dio che dovrà giudicarmi. Siccome so di aver molto peccato chiedo ai miei Cari che mi sopravvivono di pregare molto per l’anima mia affinché il Signore abbia pietà di lei. In tutte le azioni della mia vita, anche le più intime, mi sono studiato di seguire sempre le leggi del Signore senza guardare al giudizio degli uomini perché solo Lui è il nostro Sommo Giudice. In questa duratura azione (che qualche volta può essere stata faticosa e non sempre felice) e nell’amore verso Gesù e Maria ho trovato le più grandi soddisfazioni morali e la forza per proseguire quasi gioiosamente nella mia vita piena di lotte, di contrasti, di sofferenza e anche di bellezza. Esorto le mie figlie, i miei generi e i miei nipoti tutti a seguire questa stessa via. Questa mia esortazione deve costituire per loro il mio testamento spirituale. Analoga esortazione rivolgo a mio fratello Vittorio e a mia sorella Iris e ai loro congiunti che mi sono stati sempre carissimi”.

In quel “quasi gioiosamente” c’è tutta l’intima, discreta, quasi timida affermazione di un centuplo, percepito in una vita segnata da mille difficoltà e fatiche. La morte precoce del padre, la povertà estrema, gli studi e la laurea in ingegneria raggiunti a prezzo di sacrifici enormi, l’avventura di una piccola ma geniale azienda di grandi filtri per navi e acciaierie, contributo a un’Italia operosa e creativa, alla ricerca di un sano benessere per il suo popolo. Le difficoltà enormi che dovette affrontare, tra cui non mancò lo sfollamento durante la guerra, il dover ricominciare, la famiglia con le sue responsabilità: di tutto questo rimane un affidamento totale al Signore, “quasi gioioso”.

Anche l’esistenza di sua figlia, mia madre, è stata segnata dall’esperienza di una strana “impossibile positività”, aiutata dalla scoperta del carisma di don Luigi Giussani, a fronte di situazioni drammatiche incontrate nella sua vita. Neanche il tumore aggressivo, che a ondate successive l’ha aggredita negli ultimi otto anni della sua esistenza, ha potuto ridurre questa “strana” fecondità. Mia mamma diceva spesso, discretamente, che il dolore era forte, ma che lei seguiva il suggerimento che aveva avuto: offrire la sofferenza al Signore per chi viveva una vita consacrata nel mondo. E non volle morire prima di aver ringraziato il Signore per i cinquant’anni del suo matrimonio, festeggiato nella stessa chiesa dove fu celebrato e dove quattro giorni dopo si sarebbe svolto il suo funerale. “Il giorno del mio matrimonio ero emozionata, non per un motivo sentimentale, ma perché avevo l’intuizione che da questo sacramento sarebbe nata una storia grande. Ed è quel che è successo: una vita piena della presenza del Signore. Voglio ringraziarlo con voi”. E, pur stanca e affaticata, in quell’anniversario ci invitò a pranzo, piena di gioia. Un modo “normale” e semplice con cui visse quel venerdì santo della sua vita. Come è stato per tanti, prima di lei, “normali” come lei: la testimonianza che quell’uomo in croce, anche oggi nel 2015, è vita per tutti.

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