Un suicidio a piccole dosi

E' giusto legalizzare le droghe leggere? La maggior parte dell’opinione pubblica condivide il senso e gli obiettivi. Il commento di SALVATORE ABBRUZZESE

Il recente disegno di legge per legalizzare le droghe leggere beneficia di uno schieramento trasversale e gode dell’appoggio della grande stampa nazionale. C’è da credere, ragionevolmente, che una larga parte dell’opinione pubblica ne condivida il senso e gli obiettivi. L’argomento più rilevante a favore di una simile scelta si fonda sulla constatazione di una sconfitta – quella della lotta alla droga – e sulla presa d’atto di un dato emerso negli Stati Uniti dove, nei luoghi in cui la droga è stata liberalizzata, non si è affatto registrato il temuto aumento dei consumatori.

La conclusione è semplice: perché continuare a regalare alle mafie un vasto mercato di consumatori, consentendo loro profitti smisurati, quando una legalizzazione delle droghe leggere toglierebbe dalle loro mani un prodotto di largo consumo, consentendo un maggior controllo sulla sua distribuzione e recidendo così un pericoloso ponte di contatto tra una parte dell’universo giovanile ed un’area di devianza organizzata? Del resto la diminuzione della criminalità legata allo spaccio della droga e il mancato aumento dei consumatori avvenuto là dove la liberalizzazione è stata attuata non forniscono forse ampie ragioni per una scelta realistica? La scelta di liberalizzare la droga e venderla nelle farmacia o nei “canapai” di mezz’Italia piuttosto che assistere impotenti al suo spaccio in discoteca, nei cinema e nelle stazioni ferroviarie, appare così come una risposta dettata dal semplice buon senso.

Con una sola e tragica controindicazione: quella di preparare alla droga stessa il comodo scenario di una sua normalizzazione, lasciando irresponsabilmente credere che, entro limiti definiti, questa sia assolutamente gestibile e non rechi affatto i danni incalcolabili che invece emergono da ogni indagine. Il sostanziale consenso che un’eventuale scelta di liberalizzazione finirebbe con il dare al mito della compatibilità sarebbe pertanto incontrovertibile. E non si tratta affatto di una concessione di poco peso.

La droga infatti – ogni droga – si fa accompagnare dal luogo comune della sua compatibilità con la vita ordinaria. La droga, in particolare quella cosiddetta “leggera”, vive dell’equivoco di poter essere gestita e controllata da soggetti adulti coscienti e capaci, mentre sono proprio i centri di recupero, i Sert e le comunità terapeutiche a testimoniare il contrario, ricevendo ogni giorno uomini e donne che hanno iniziato ad assumere sostanze stupefacenti pensando di poter gestire e controllare ogni sostanza: dall’hascisc alla cocaina ed alle anfetamine, ritenendo di non essere come i comuni ”tossici”, ma più informati e competenti di costoro.

Un sciagurata liberalizzazione renderebbe questo luogo comune inattaccabile; costituirebbe la prova provata di ciò che migliaia di consumatori di droga già pensano ogni sera: che la sostanza, qualunque questa sia, possa essere gestita, che ci si entra e se ne esce non appena lo si desidera, che le proprie abilità e le proprie capacità siano assolutamente all’altezza di una simile scommessa. Dinanzi ad una simile semplificazione la scelta di affiancare la droga alle sigarette ed alcol – come se fossero la stessa cosa – rasenta la malafede. Ma soprattutto denuncia la completa bancarotta di un intero percorso educativo; il fallimento sonoro e senza appello di un’intera classe intellettuale e politica arrivata alla più completa afasia ed alla più profonda ignoranza su ciò che la droga significa, sul percorso mortale che inaugura e che un tale comportamento irresponsabile finisce per consentire.

C’è qualcosa di tremendo in una classe intellettuale e politica che dinanzi ad un problema, una volta segnalata l’inefficacia delle misure approntate, anziché interrogarsi per capire dove siano gli errori e come si possa fare per superarli, conclude semplicemente che il problema non è poi così grave come sembra e che, comunque, può essere “gestito” anche quando non si riesce a risolverlo. Come a dire che “se non c’è la soluzione, non c’è nemmeno il problema”. Nessuno sembra rendersi conto che una tale incapacità educativa suoni la campana a morto di un intero processo di socializzazione.

Ad una fascia sociale di ragazzi e ragazze persi nei vicoli ciechi delle dipendenze (perché la droga crea dipendenza) rispondiamo offrendo un degrado controllato, un suicidio a piccole dosi. E questo non perché riconosciamo che le droghe leggere non siano pericolose, ma semplicemente perché non riusciamo a fermarli, avendo smarrito anche noi il senso dell’esistenza o forse, ancora più tragicamente, non avendolo mai realmente posseduto.

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