Se siamo tutti migranti

Accogliere è un dovere morale, mentre l'incapacità di accogliere è una questione antropologica, perché percepiamo chi arriva come una minaccia. FERNANDO DE HARO

Gli striscioni colpiscono: Refugees Welcome! (Benvenuti profughi!) e non sono sulla facciata del Bundestag o di qualche ufficio governativo. Li abbiamo visti negli stadi di calcio tedeschi. Molti dicono che accogliere i profughi siriani è un dovere morale. Sicuramente. Tuttavia, prima di questo è una grande opportunità, un’occasione per scoprire se stessi. Perché l’Europa recuperi energie nel compito sempre presente di ricominciare.

Ciò è sufficientemente chiaro a Cristina, una berlinese che ha accolto in casa un siriano. “Siamo felici di avere nella nostra casa un nuovo inquilino. Stiamo imparando molto”, dice a un giornalista della radio. A Berlino, la società civile si è organizzata prima delle autorità politiche, prima delle istituzioni europee. I medici fanno turni per assistere i nuovi arrivati, le madri di famiglia mandano messaggi nelle reti sociali per chiedere utensili, si distribuiscono pacchi di benvenuto.

Non è superfluo che i comuni e le Comunità autonome in Spagna si mobilitino per facilitare l’accoglienza. Qualcuno li critica solo perché i loro governi sono di sinistra. Questa crisi migratoria, la più grande dopo la seconda guerra mondiale, sembra essersi trasformata in un grande scossa che ha svegliato una parte dell’Europa. Circa 270mila immigrati illegali sono arrivati dall’inizio dell’anno. La Grecia è diventata il grande punto di entrata per chi fugge dalla guerra in Siria attraverso la Turchia. Le scene di dolore e sofferenza messe in luce dai media durante tutto l’inverno, la situazione nella stazione ferroviaria di Budapest, l’annegamento del piccolo Aylan e di suo fratello hanno provocato una mobilitazione nell’opinione pubblica.

Angela Merkel questa volta si sta dimostrando leader non dei tagli, bensì della compassione. I capi di Stato e di governo europei hanno sul loro tavolo la proposta di accogliere non più 40mila rifugiati, cifra avanzata da Bruxelles lo scorso maggio, bensì 160mila. L’Onu dice che il numero deve aumentare a 200mila. L’Europa potrebbe ispirarsi al sistema di accoglienza e ricollocazione messo in moto dalla Germania. Intanto è stato sospeso il Trattato di Dublino, che obbliga a chiedere asilo nello Stato di arrivo. La grande maggioranza dei profughi chiede di stabilirsi in Germania o Svezia, ma è senza dubbio necessario concordare un sistema regolamentato di ripartizione. L’Unione Europea, che ha dimostrato una vergognosa incapacità politica nell’affrontare la crisi greca e quella delle banche, davanti a questo grande problema ha l’occasione per dimostrare di saper essere all’altezza delle circostanze.

Alla ripartizione di rifugiati per quote si oppone il gruppo dei Paesi dell’Est, con in primo piano Polonia e Ungheria, i Paesi cioè che, negli anni 90, ottennero i maggiori benefici dalla generosità europea. Budapest si è trasformata nella capitale della paura. Il rimo ministro Orban nell’ultima settimana ha sostenuto, dopo aver costruito un nuovo muro, che bisogna difendere l’Europa dalla invasione di chi viene da “un’altra civiltà”. Elettoralismo di corto respiro, paura che la prosperità dell’Europa venga gravemente compromessa dall’aiuto offerto a chi fugge dalla guerra.

L’Ungheria si ritrova dappertutto: come egoismo, come logica preoccupazione per l’integrazione, come identità debole. Tutti abbiamo dentro un volontario tedesco e un primo ministro ungherese. Ma la paura dell’invasione non ha alcun fondamento. L’Europa è la regione del mondo che ha accolto meno rifugiati. Siamo 500 milioni di persone. Abbiamo saputo risolvere i problemi quando negli anni 90 arrivarono quelli che scappavano dalla guerra nei Balcani. La Francia dopo la guerra del Vietnam accolse 100mila rifugiati. L’incapacità di accogliere è molto più antropologica che economica o sociale, perché percepiamo chi arriva come una minaccia. E’ il sintomo più evidente della debolezza di quelle certezze che permisero all’Europa di sollevarsi dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Viviamo come se le conquiste del benessere o della democrazia fossero una proprietà che porta grandi rendite, ma che non ha bisogno di essere coltivata e curata.

Questa sciagurata identità, che frequentemente domina in Europa, è ciò che rende più problematica l’integrazione. Non si può neppure affermare, come fanno alcuni liberali, che la soluzione stia nel dare adeguato lavoro a quelli che arrivano. No, non tutto è economia. Anche in questa occasione siamo di fronte a una interessante sfida, forse la più decisiva. L’integrazione ci obbliga a rispondere a domande elementari che siamo soliti dimenticare: In cosa crediamo? Cosa consideriamo fondamento della nostra democrazia? Cosa proponiamo a un orientale di classe media? Cosa offriamo come ideale di vita in comune a musulmani – in gran parte con un livello di formazione più che accettabile – che non vogliono rinunciare alla loro fede e che fino a ieri vivevano in un Paese relativamente prospero?

Essere europei è, in grande misura, essere romani. Roma non difese mai ciò che le era proprio come il necessariamente buono, né difese la purezza del sangue; fu sempre disposta a ricominciare, a imparare dal diverso, a riconquistare l’eredità classica.

Cristina e i volontari tedeschi, forse inconsciamente, affermano un’esperienza che ha fatto dell’Europa ciò che è: l’esperienza dell’accoglienza dell’altro come un bene. Abbiamo iniziato l’anno colpiti dagli attentati contro la redazione di Charlie Hebdo e abbiamo reagito allora storditi, difendendo una libertà di espressione astratta che colpiva la sensibilità di chi era diverso. In questo mese di settembre ci sentiamo ostili di fronte al giusto che soffre. E’ una posizione che, malgrado le nostre paure, non ci fa più umani.

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