Il perdono che fa giustizia

In Colombia il referendum ha detto no all’accordo con le Farc. Un rifiuto che non viene dai familiari delle vittime, che anzi danno lezione di giustizia. FERNANDO DE HARO

Sembra che nei referendum il diavolo ci metta lo zampino. Prima la Brexit e adesso la consultazione sul processo di pace in Colombia. L’Accademia svedese cerca di salvare la fine di oltre 50 anni di violenza con un premio Nobel a José Manuel Santos. Il presidente, come tutti, ha sopravvalutato la forza del Sì, non è riuscito a contrastare la campagna dell’ex presidente Uribe e non si è misurato adeguatamente con l’antipatia che tra molti colombiani ancora suscitano le Farc. Una questione così importante è stata decisa con una maggioranza del 50,21% e un’affluenza inferiore al 40%. L’Ue per una decisione ugualmente importante (l’indipendenza del Montenegro) ha richiesto una partecipazione al voto di almeno il 50% e un 55% di Sì.

I protagonisti del No non sono state le vittime. Nei cinque dipartimenti (Choco, Cauca, Nariño, Putumayo e Vaupés) dove le Farc hanno fatto più danni ha vinto il Sì. Il rifiuto del processo di pace ha molto a che vedere con una società che parla di impunità e che teme il leader della guerriglia Timoleón Jiménez, noto come Timochenko. Crede che potrà diventare Presidente, c’è paura che la Colombia finisca come il Venezuela.

Alcune ore prima del voto, le agenzie internazionali facevano circolare la foto di un anziano scattata nel quartiere della Chinita a San José de Apartadó, dove le Farc fecero un massacro 22 anni fa. L’immagine era un riflesso di come alcuni di coloro che avevano subito maggiormente gli attacchi dei guerriglieri affrontavano il referendum: un vecchio, di spalle, indossava una maglietta su cui si poteva leggere “Le vittime perdonano”. Una frase miracolosa. Non sappiamo chi abbia perso quell’uomo, ma possiamo immaginare l’orrore che la violenza ha lasciato nella sua vita. Possiamo immaginare come si sia sentito colpito da un’enorme ingiustizia, che gli ha fatto perdere chi amava di più. Prima è arrivato il colpo che gli ha fatto perdere una parte di se stesso, poi il dolore che si prolunga nel tempo, per giorni, mesi, anni, con il vuoto dell’assenza che morde l’anima. È impossibile lasciarsi alle spalle questo dolore, è impossibile far tacere il desiderio di giustizia.

In realtà, non possiamo immaginare il dolore di una vittima se non con discrezione, silenzio e rispetto. Nemmeno possiamo immaginare perché qualcuno ha indossato una maglietta in cui dice che perdona. Supponiamo che quest’uomo sia stato aiutato dal fatto che le Farc hanno chiesto perdono, che hanno deciso di consegnare le armi. Ma certamente ciò non può essere stato sufficiente. C’è da presumere che il protagonista della foto, in alcuni momenti di questi ultimi anni, si sia accorto che il dolore immenso che provava non era esclusivo. Supponiamo che qualcuno o qualcosa sia riuscito a soddisfare il suo desiderio di giustizia, forse un amore, forse gli si sarà aperta una strana speranza nella sua ferita. Ed è sorprendente che quel vecchio abbia pensato che vale la pena costruire quel che gli resta del suo futuro insieme a coloro che tanto dolore gli hanno causato.

In realtà, non possiamo che supporre e restare ammirati davanti a coloro che sono riusciti a fare questo passo così misterioso. Un passo per certi versi incomprensibile, ma allo stesso tempo necessario e gratuito.

Il passo verso una giustizia che comporti la piena esecuzione delle pene è quasi sempre necessario, soprattutto quando si sono vissute situazione di intenso conflitto sociale o quando si è subita una guerra civile. In queste situazioni può servire cercare strade alternative. Lo abbiamo imparato dal Sudafrica e dalla transizione della Spagna verso la democrazia. Senza la legge di amnistia approvata nel 1977, ora criticata dai populisti, e difesa allora dai comunisti, non sarebbe stato possibile un’uscita dalla dittatura come quella che c’è stata. Come sarebbe stata l’Europa del dopoguerra se qualcuno avesse preteso una piena compensazione dei danni subiti? I processi di giustizia restaurativa, con incontri tra le vittime e i protagonisti del terrorismo italiano degli anni di piombo (il lavoro è stato raccolto ne “Il libro dell’incontro”) mostrano la fecondità nell’aprire nuovi orizzonti in questa difficile situazione. Le conversazioni hanno aiutato a far uscire il dolore delle vittime e hanno permesso a coloro che furono responsabili di violenza di fare un cammino che il carcere non è in grado di garantire.

Il desiderio di giustizia è irrinunciabile. Tuttavia è un’illusione pensare che possa essere soddisfatto facendo pagare un prezzo, in forma di anni di carcere, in cambio del male subito. Lo Stato di diritto deve indubbiamente garantire la sicurezza. Sicurezza che in Colombia sembra ora esserci. Il paradosso di cui poco si parla è serio: il desiderio di giustizia non si soddisfa senza trascenderlo sia verso il bene del popolo, sia verso una Giustizia definitiva. Ma ciò non può avvenire senza un avvenimento gratuito, come quello che deve essere accaduto a quel vecchio del quartiere di Chinitas, come quello che è accaduto a Mandela in prigione. La pace dipende da qualcosa che non può essere garantito da alcun sistema.

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