Il precario depresso non serve all’azienda

I contratti di lavoro a tempo determinato sono tornati a salire. Uno studio approfondito dimostra il legame tra precariato e depressione. Ecco di cosa si tratta. GIORGIO VITTADINI

Ormai da settimane l’unico dibattito su cui sembra che tutta Italia debba concentrarsi fino al prossimo 4 dicembre è quello del quesito referendario, con i tifosi del sì e del no che monopolizzano l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma la vita va avanti e con essa le difficoltà e le sofferenze di tanti a cui in pochi sembrano interessarsi.

Dopo brevi momenti che sembravano annunciare un ritrovato benessere, le condizioni di lavoro tornano a offuscarsi. 

Il numero dei contratti a termine continua a crescere (24% in più rispetto al 2015) mentre quelli che dovevano essere trasformati in contratti a tempo indeterminato calano vistosamente, meno 37% sempre rispetto all’anno scorso (dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps riferiti al primo semestre dell’anno). Finiti gli sgravi previsti dal Jobs Act l’effetto stabilizzazione dei precari con contratto a termine si sta esaurendo? Sembra di sì, visto poi che l’uso del voucher è nel frattempo aumentato del 40%. Quel che è peggioramento delle condizioni di lavoro, per certi economisti che vanno per la maggiore a Bruxelles da inizio anni 90, viene fatto passare come condizione necessaria per lo sviluppo. E’ davvero così e soprattutto, a che prezzo?

Se la crescita nel mondo del numero di persone affette da disturbi mentali è fenomeno noto da tempo, raramente si è detto quante, tra queste persone, sono quelle che si ammalano a causa della precarietà del loro lavoro. Alcuni recenti lavori scientifici (pubblicati su Social Medicine, Psychiatry Research, Psychiatric Quarterly) a cura di alcuni docenti della Brunel University di Londra e dell’Università Bicocca di Milano, mostrano che la mancanza di un lavoro stabile provoca preoccupazione, stress e depressione. 

Lo studio, che per la prima volta in questo campo ha utilizzato solo dati amministrativi e non sondaggi su un campione di popolazione, si è occupato di più di tre milioni e mezzo di occupati residenti in Lombardia (scelta perché la regione più rappresentativa d’Italia per il suo alto sviluppo economico; qui si concentra il 18,5% dell’intera forza di lavoro del paese) di età compresa fra i 18 e i 65 anni in un periodo compreso tra il 2007 e il 2011, verificando tutte le ricette rilasciate da medici curanti, studi specialistici e ospedali. 

In questo arco di tempo, si è calcolato che la percentuale di coloro che hanno svolto un lavoro a tempo determinato variasse in Lombardia dal 35 al 47% degli occupati con una media di 200 giorni all’anno di lavoro stabile. Si è poi visto come un dipendente potesse cambiare contratto di lavoro da 0,2 a 0,4 volte all’anno, a seconda dell’età. Si è quindi osservato come in questa tipologia di lavoratori sia in aumento l’uso di psicofarmaci, dagli antidepressivi agli ansiolitici agli stabilizzatori di umore. Dei tre milioni e mezzo di occupati, quelli che fanno uso di medicinali psicotropi in particolare di anti depressivi erano il 7,8%, 277.865 persone, la maggior parte dei quali di sesso maschile. 

L’importanza della stabilità nelle relazioni affettive e personali è stata ampiamente studiata e dimostrata; quella nel lavoro si comincia a coglierne l’importanza solo adesso (ci si era occupati al massimo del livello di stress che subiscono i grandi dirigenti o i manager) in una situazione dove gli strumenti di previdenza e assistenza sanitaria sono ancora completamente focalizzati sulla salute fisica e largamente inadeguati per tutelare quella mentale.

Ma nonostante ciò, uno dei tanti mantra che si ripetono sostiene che l’introduzione di forme di lavoro sempre più precarie aiuta a superare la crisi. E’ così? Sia permesso dubitarne, come abbiamo fatto più volte su queste pagine: pensare solo all’abbattimento dei costi del lavoro precarizzandolo non è una politica aziendale sana. E’ piuttosto vero che molte multinazionali riescono così a sfruttare meglio la manodopera in una logica usa e getta, o che le imprese più deboli possono abbassare il costo del lavoro e continuare a boccheggiare pensando in questo modo di sopravvivere e tornare competitive. 

Ma il vero imprenditore, quello che investe, occupa, produce, vende, si internazionalizza, non si accontenta di questa logica votata “al minimo necessario”. Per  migliorare l’offerta deve avere lavoratori che imparano, migliorano le loro competenze, sono in grado di aumentare la qualità del prodotto. Deve fidelizzare il lavoratore, far sì che rimanga tutta la vita o almeno per molti anni perché se se ne va l’azienda perde competitività. 

Spesso poi si usano malamente, confondendoli ad arte, termini come flessibilità e precarietà. In paesi come l’America, la prima ha sempre dato risultati positivi, tanto che le aziende preferiscono assumere chi più spesso cambia lavoro perché ha immagazzinato esperienze diverse e dunque è più capace di chi occupa “il posto fisso” tanto amato in Italia, dove la flessibilità è ancora una chimera. 

Anche in Italia la flessibilità non è detto sia negativa come pensano certi massimalisti veterocomunisti, e non solo in quei settori che hanno attività strutturalmente stagionali come la ristorazione o il turismo dove sono gli stessi lavoratori a cambiare spesso azienda. Può invece essere fisiologica e necessaria come primi passi di un percorso lavorativo che presuppone necessariamente periodi di prova prima di giungere al lavoro a tempo indeterminato, in una visione che mette al centro dell’economia lo sviluppo della persona e del suo capitale umano. 

E’ una prospettiva ben diversa da quel precariato utilizzato unicamente come sistema per abbassare i costi, non solo disumano ma paurosamente alleato del PIL che cresce solo dello zero virgola…

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