Mosul e la croce di Qaraqosh

Intorno a Mosul si combatte per liberare la città che è stata un esempio non solo di persecuzione e terrore, ma anche di libertà, testimoniata dai cristiani, spiega FERNANDO DE HARO

Due sacerdoti si parlano in aramaico, la lingua di Gesù, ricordando come si sale al secondo piano della parrocchia dell’Immacolata Concezione di Qaraqosh, cittadina a 30 chilometri da Mosul. La chiesa, prima dell’arrivo dell’Isis, accoglieva 3.000 fedeli, ora l’altare è profanato, i libri dei canti gettati a terra, l’organo distrutto. I jihadisti, infatti, l’hanno utilizzata come arsenale perché sapevano che la coalizione non l’avrebbe bombardata.

I due sacerdoti siro-cattolici salgono sul tetto e improvvisano una croce con due pezzi di legno. Nell’arco di pochi secondi, una croce torna a erigersi nel cielo di Qaraqosh, tenuta in piedi da due sacerdoti che cantano in aramaico, la lingua di Gesù. Cantano un Alleluia. Le campane cristiane della pianura di Ninive sono tornate a suonare. 

Le ultime notizie ci portano a viaggiare fino a quello che ora è il luogo più santo del mondo, per inginocchiarsi e baciare, in forma discreta, mentre il fragore della battaglia si sente ancora nei dintorni, questa croce. Per quelli che non ci sono più, per quelli che sono rimasti fedeli in mezzo alla grande persecuzione, per i musulmani che hanno visto oltraggiato il nome del Corano dalla barbarie dei jihadisti (“Come ti sentiresti se dei terroristi uccidessero in nome della tua religione?”, chiedono i pii seguaci di Maometto). Qaraqosh, una città di 50.000 abitanti, è stata una città-rifugio dall’agosto del 2014: vi sono fuggiti i cristiani di Mosul, che, quando le cose si sono messe male, sono andati verso il Kurdistan.

Obama, prima di lasciare la Casa Bianca, vuole ottenere una vittoria. E lasciarsi così alle spalle i propri errori e quelli di Bush. L’intervento dell’ex Presidente nel 2003 e lo smantellamento dell’esercito e della polizia hanno trasformato l’Iraq in uno Stato quasi-fallito. Il radicalismo democratico di Obama, cinque anni fa e il suo tentennare hanno impedito una rapida vittoria sull’Isis. Nessuno sa come o quando verrà liberata Mosul. 

La presa dei villaggi circostanti è relativamente veloce. L’ambiguità di due anni fa è scomparsa. Sono esaurite le fonti di finanziamento, in particolare con la vendita di petrolio attraverso la Turchia e il doppio gioco di Erdogan. Nelle piccole città, circondate dai campi, è possibile utilizzare le armi pesanti e le tecniche di guerra tradizionali. Ben altra cosa, però, è conquistare e pulire una grande città come Mosul se i jihadisti resistono e non fuggono a Raqqa, la capitale del Califfato dell’orrore, nel nord della Siria. Quindi ci sarà da combattere casa per casa. E il morale dei combattenti sarà un fattore essenziale.

Non sappiamo nemmeno come sarà divisa la città i tra Peshmerga curdi del Pkk, l’esercito iracheno e le milizie sciite. La Turchia vuole, a tutti i costi, intervenire in anticipo, nonostante la riluttanza del governo sciita dell’Iraq. L’obiettivo fondamentale di Ankara è controbilanciare il protagonismo dei curdi. L’Arabia Saudita, “sponsor” dei sunniti, non vede di buon occhio il ruolo dei miliziani vicini all’Iran. È difficile sapere quale sarà la reazione della popolazione sunnita che un tempo aveva visto Daesh come una forza liberatrice contro gli sciiti.

Non sappiamo nemmeno se i cristiani di Mosul potranno tornare alle loro case. Il patriarca caldeo Louis Sako li ha invitati in una visita a Bartella, un villaggio recentemente liberato. La presenza della minoranza cristiana potrebbe essere un fattore fondamentale per la ricostruzione dell’Iraq. Un Iraq che dovrebbe rifiutare le formule di divisione tra etnie e religioni (sunniti, sciiti, cristiani e altre minoranze che venissero posti in territori “esclusivi” di una religione) propugnata da Kissinger sul modello di Israele. L’organizzazione di Mosul liberata potrebbe assomigliare al trattato di Sykes-Picot che ha definito gli attuali confini del Medio Oriente. Questa volta si spera che non vi siano segreti e che non si applichino formule troppo astratte.

Qualunque sia la soluzione, Mosul sarà per il XXI secolo il nome di un genocidio, ma anche della libertà. La notte tra il 18 e il 19 luglio 2014 è segnata nella memoria dei cristiani della città come la notte del grande esodo. Daesh era arrivato qualche settimana prima promettendo che li avrebbe lasciati in pace. Poi ha cominciato a segnare le loro case, con la lettera “nun”, la “N” di Nazareni. E più tardi li ha costretti a rinunciare a tutto se non si fossero convertiti. In poche ore. È stato un gesto che dimostra che lo Stato Islamico non è né Stato, né islamico. L’espulsione era in contrasto con le disposizioni di Maometto nella cosiddetta Costituzione di Medina (622), in cui si prescrive una certa tolleranza per gli ebrei e i cristiani. In centinaia hanno quindi lasciato la città senza rinunciare alla loro fede.

Questo gravissimo attacco alla libertà dell’estate del 2014 è stato l’occasione di una testimonianza imponente in cui brillava la natura della verità. Il jihadismo, espressione del fondamentalismo, afferma la verità senza libertà. I cristiani di Mosul, liberamente fedeli nonostante le pressioni subite, ci hanno dimostrato che non c’è alcuna strada verso la verità che non sia una libertà sedotta.

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