Quale attesa?

Aria di Natale. Nell'inserto culturale del Corriere della Sera lo scrittore Marco Missiroli ricorda la notte in cui ha scoperto che Babbo Natale era suo padre. PIGI COLOGNESI

Aria di Natale. Nell’inserto culturale del Corriere della Sera lo scrittore Marco Missiroli ricorda la notte in cui ha scoperto che Babbo Natale era suo padre, la notte in cui — come gli disse il padre sorpreso mentre sistemava i pacchetti coi regali — il piccolo Marco è diventato “grande”. In quella notte l’incantesimo del Natale è stato infranto, la dolcezza dell’attesa di un misterioso benevolo imprevisto è stata definitivamente sostituita dall’ovvietà di una routine fatta di infrangibili meccanismi di causa ed effetto. Eppure, scrive Missiroli, anche da “grandi” ogni tanto — almeno una volta all’anno, a Natale appunto — piace ricostruire quell’atmosfera, “fermarsi allo stato di vigilia, l’infanzia, quando traboccano le illusioni”. Il che significa “dimenticarsi ciò che si è. Dimenticarsi, per poter essere”.

Essere cosa? L’autore non lo specifica, ma è chiaro che intende uno stato di vita e di rapporti compiutamente soddisfacente, non turbato dalle difficoltà del presente, non oscurato dai dolori quotidiani, aperto alle infinite possibilità che un bambino in attesa di Babbo Natale sente con trepidazione certa. Missiroli sa bene che questa attesa può essere accusata di sentimentalismo e infatti aggiunge: “Imbarazza confessarlo, ma da fine novembre avverto un senso di possibilità che rasenta la gioia”. Che consiste nell’operazione di “esimersi dalla maturità”.

Sorgono due considerazioni. Quali sono le ragioni per cui io che sono diventato grande devo illudermi con gli stessi sogni che mi animavano quando credevo a Babbo Natale? Per quale ragione dovrei dimenticarmi per dover essere? Forse per anestetizzarmi qualche giorno dai miei dolori? Per fingere di non vedere una realtà che mi ferisce? Per tirare avanti una storia che s’incammina inesorabilmente verso il baratro del fallimento? Insomma, l'”incanto della vigilia” (così è titolato lo scritto di Missiroli) assomiglia troppo a una benefica droga che annebbia lo sguardo realista e ottunde gli spasimi del cuore sofferente.

Eppure — ed è la seconda considerazione — sentiamo che quando eravamo bambini e vivevamo la vigilia di Natale con quella vibrante attesa (per me di Gesù Bambino non di Babbo Natale, ma qui c’è di mezzo un cambiamento culturale di dimensioni enormi cui non posso adesso far attenzione), quando eravamo bambini non eravamo più stupidi di quanto lo siamo ora che realisticamente constatiamo le difficoltà cui quei sogni sono andati incontro. L’incanto della vigilia non è solo la caratteristica di chi non conosce ancora la vita, ma la dimensione anche di me adulto che ho visto tanti fallimenti eppure non posso strapparmi di dosso — diciamola la parola giusta — la speranza che domani possa essere meglio. Riconoscere in sé questa struttura di attesa senza esserne imbarazzati, senza vergognarsene, senza relegarla nel buio dell’irragionevolezza cui si cede una volta all’anno, è segno di una maturità non soffocata e non soffocante. E mette addosso una vibrazione di tutta la persona che mai è così matura come quando tiene aperte le porte alla possibilità sconvolgente che la felicità desiderata da piccoli sia possibile pregustarla adesso.

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