Terzo settore o Far West?

Dopo due anni di rinvii, la prossima settimana prosegue in Senato la discussione sulla Riforma del Terzo Settore. La posta in gioco per l'interesse pubblico è enorme. GIORGIO VITTADINI

C’è un clandestino in attesa di cittadinanza che si aggira da sempre nel nostro Paese. E’ il mondo del Terzo Settore, una realtà diffusa e radicata, tanto che anche in tempo di crisi ha continuato a crescere e a coinvolgere sempre più dipendenti e volontari, ma che è costretto ad arrabattarsi in una giungla di ostacoli.

Si tratta del vasto panorama che riguarda le organizzazioni non profit: cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, Onlus, che si occupano dei bisogni sociali più disparati. Realtà non assimilabili né allo Stato né al mercato tradizionale: non sono enti privati a fini di lucro, non sono emanazioni dell’amministrazione pubblica, ma neanche non profit mutualistiche che agiscono solo per il bene dei soci, come può essere un circolo di scacchi. Sono invece soggetti di diritto privato ma con valenza pubblica perché offrono beni e servizi di utilità generale e perciò collaborano allo scopo stesso dello Stato: la costruzione del bene comune.

La loro ricchezza ideale fa sì che la loro caratteristica fondante non sia la divisione degli utili d’impresa, ma piuttosto il bene della persona bisognosa, concreta, con cui hanno a che fare tutti i giorni: il disabile, l’anziano, il tossicodipendente, il ritardato. Il legame con queste persone è la vera motivazione ed energia che rende disponibili al sacrificio personale.

Per questo motivo tali realtà possono essere definite in modo più preciso come “non profit di pubblica utilità” secondo la definizione del System of National Account (sistema internazionale di statistica) di qualche anno fa.

Sembrerà paradossale, ma nonostante l’importanza che questo mondo riveste per il benessere della popolazione, non ha ancora un quadro normativo unitario di riferimento. La legislazione esistente infatti è proliferata come i quartieri spagnoli di Napoli: quando si creava uno spazio, una necessità, veniva fatto un provvedimento o una circolare. Mai una legge organica.

L’attuale Governo si è impegnato a dare una svolta a quello che il Premier Renzi ha chiamato “non terzo, ma primo settore”. Quasi due anni fa (luglio 2014) sono state pubblicate le Linee guida per la riforma del Terzo Settore che, dopo una serie di stop-and-go, mercoledì della prossima settimana vedrà la prosecuzione al Senato della discussione dei diversi decreti.

Tutto il legiferare disorganico negli anni ha creato una gran confusione senza toccare uno dei nodi principali, quello che sembra ossessionare i commissari europei: varare una normativa che permetta alle realtà non profit di perseguire la loro mission di interesse pubblico, senza che questo le favorisca in modo ingiustificato. In Italia c’è un importante precedente: la sentenza della Corte Costituzionale (storica per l’affermazione della sussidiarietà orizzontale), che nel 2003 sancì che le Fondazioni di origine bancaria sono realtà private che svolgono una funzione di pubblica utilità, da difendersi dalle mire rapaci della politica e da incentivare con una normativa che le distingua da istituti creditizi a fine di lucro. 

Intanto, il mondo del Terzo Settore vive ogni giorno in una giungla di difficoltà. Alcuni esempi.

In provincia di Alessandria una realtà che si occupa di accogliere e accudire disabili, dopo un accertamento condotto da personale poco competente dell’Agenzia delle entrate, perde la qualifica di Onlus. E’ un errore, così stabiliscono i primi due gradi di giudizio, ma una circolare interna dell’Agenzia delle Entrate impedisce di riappropriarsi della qualifica se non dopo la fine dell’iter giudiziario. La causa dura dieci anni, e nel frattempo il Presidente, ignaro di non essere stato reinserito nell’Anagrafe delle Onlus, riceve la notifica di una condanna penale per aver dichiarato nell’atto di acquisto di un’auto che il suo ente rivestiva la qualifica di Onlus.

A Torino invece capita che tutte le realtà del privato sociale che si occupano di accompagnare anziani e disabili a fare cure o visite, siano particolarmente armate di santa pazienza: ogni circoscrizione della città ha un suo regolamento per la rendicontazione delle spese. Dieci circoscrizioni, dieci modalità di rendicontare.

I problemi non sono solo a livello locale. A livello nazionale, quando entrò in vigore la legge sul recupero alimentare, le aziende che volevano donare alimenti, per avere degli sgravi fiscali, erano tenute a fare una dichiarazione all’Agenzia delle Entrate se il valore dei prodotti partiva da 5 milioni delle vecchie lire. Con il passaggio all’euro, il tetto fu portato a 2500 €, un valore troppo basso perché le aziende fossero incentivate a intraprendere la procedura e a divenire donatrici. Ci sono voluti tredici anni perché il tetto fosse alzato a 15.000 € (è avvenuto con l’ultima legge di stabilità).

E, beffa delle beffe, se teoricamente i cittadini possono dare il 5 x 1000 delle loro tasse, avendo messo un tetto di spesa massima, questa quota è diventata circa il 3 x 1000!

Last but not least, mentre la Commissione Europea, nello sviluppare e attuare il FEAD (Fondo Europeo aiuto ai poveri), ha cercato di semplificare al massimo le procedure per l’assegnazione degli aiuti, gli Stati membri hanno aggiunto dei vincoli, come la richiesta alle organizzazioni caritative dei nomi dei poveri e addirittura del numero della loro carta d’identità. Rallentando, se non bloccando gli aiuti.

Va citata poi, ad onta questa volta dell’Europa, la procedura di infrazione all’Italia per aiuto di Stato a causa dell’agevolazione concessa nel pagamento dell’IMU per immobili adibiti a scuola degli enti educativi non lucrativi.

In fin dei conti, la burocrazia reagisce semplicemente al fatto che non si sia ancora definito con chiarezza cosa siano le realtà private non profit di pubblica utilità e quindi le ignora, le vessa, le discrimina. Speriamo che sia finalmente arrivato il momento di fare chiarezza perché il grande portato di energia, di esperienza, di bene di questo vivace mondo possa più utilmente essere valorizzato per il bene di tutti.

A meno che, vista la carenza di soldi pubblici, si vogliano abbandonare a se stesse le milioni di persone che il non profit di pubblica utilità oggi supporta nel nostro Paese: invece che il Terzo Settore, sarebbe il Far West.

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