La nuova sfida al cristianesimo

Il rapporto con la cosa pubblica, la legge e il potere, è nella natura del cristianesimo. Che deve sempre mostrare la sua novità, come ricorda FERNANDO DE HARO

Cosa sarebbe successo se San Paolo all’Areopago avesse cercato di spiegare agli ateniesi che la schiavitù che serviva a tenere in piede il loro sistema economico non era giusta e che i loro gusti bisessuali erano inopportuni? 

Il rapporto con la cosa pubblica, la legge e il potere, è nella natura del cristianesimo. È nato da un avvenimento storico e questo rapporto può essere analizzato solo storicamente. In ogni momento, secondo le diverse circostanze. I problemi di inizio XXI secolo non assomigliano a quelli del I secolo, ma nemmeno a quelli di pochi anni fa. Nell’era della globalizzazione, in cui la comunità cattolica e altre comunità cristiane sono diffuse in tutto il mondo, occorre distinguere almeno tre situazioni ben distinte. In ciascuna si rende urgente, come negli ultimi anni del XX secolo, che il contenuto e il metodo cristiano coincidano: anche in politica occorre che quel che si afferma coincida con la forma che gli è più consona (una testimonianza offerta alla libertà). Il cristianesimo non solo afferma una verità, ma come accedervi.

La prima situazione si produce nel momento di intervenire, giudicare, promuovere e opporsi, se è il caso, a leggi e norme. Il cristianesimo, quando è fedele alla propria esperienza originale, genera una “intelligenza della realtà” (per usare le parole di Benedetto XVI) che può arrivare fino al diritto. Molti di quelli che ora riconosciamo come valori etici condivisi (uguaglianza e libertà, per esempio), consacrati nel diritto positivo, non lo sono stati per molti secoli. Solamente un’esperienza cristiana sostenuta nel tempo ha permesso l’abolizione della schiavitù (nel 1865 negli Stati Uniti e nel 1866 in Spagna), 18 secoli dopo che San Paolo rimandò lo schiavo Onesimo al suo padrone Filemone con la richiesta di trattarlo come un figlio.

Ma la storia, come sappiamo, non funziona con la legge del progresso continuo. E gran parte delle evidenze che l’esperienza cristiana ha reso possibile sono marcite man mano che perdeva vigore e incidenza la pianta da cui pendevano come frutti. E così beni come il matrimonio stabile, il significato dell’identità sessuale, la convenienza di contare su un padre e una madre per educare e crescere i figli, il valore della vita quando si soffre, non sono riconosciuti più come tali. Ci sembrava naturale che ci fosse stima per loro e che il diritto li tutelasse, ma ora sappiamo che occorre qualcosa di straordinario (gli antichi la chiamavano grazia) per mantenere in piedi l’ordinario.

Questa situazione pone due domande che non hanno una risposta semplice: quando è bene che la legge tuteli ciò che non è riconosciuto liberamente come un bene per la maggioranza? Che criterio di opportunità deve reggere ed equilibrare la possibilità di annunciare l’essenza del cristianesimo con la sana aspirazione a che le leggi riflettano le conseguenze antropologiche e morali della fede? Quest’ultima domanda nasce perché anche qui c’è un possibile conflitto.

La prima domanda attraversa il pensiero e la prassi politica dell’età contemporanea. La rivoluzione americana, come ha spiegato Hannah Arendt, ha solamente istituzionalizzato quel che la coscienza del popolo aveva già acquisito. I padri fondatori si impegnarono per far sì che la Costituzione fosse accettata da tutti gli Stati prima di promulgarla. La rivoluzione francese, al contrario, pretese di imporre idee sul progresso ancora non acquisite con l’esperienza. Il metodo statunitense sembra più conforme alla stima che il cristianesimo ha per la libertà (riformulata nella Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II). Questo non significa, come ha fatto intendere il diritto costituzionale della seconda metà del XX secolo, che la democrazia è solamente l’espressione della volontà popolare. E che la quest’ultima è solamente la volontà della maggioranza. La democrazia si basa anche sui diritti umani. 

Nel mondo del diritto pubblico si discute proprio in questo periodo su come si possa, dentro il sistema giuridico, legittimare il fatto che la volontà popolare del passato possa limitare il presente attraverso procedimenti costituzionali. I cristiani non possono sottrarsi a questo dibattito. A maggior ragione quando la modernità ha fatto recuperar loro qualcosa che era nel loro DNA: l’accesso abituale alla verità avviene mediante la libertà. Anche in politica.

Fino a non molto tempo fa, specialmente nel mondo occidentale, era difficile immaginare che fosse necessario stabilire una gerarchia tra l’annuncio dell’avvenimento cristiano e le sue conseguenze. Ma siamo in un certo senso tornati al punto di partenza. Sarebbe stato opportuno che San Paolo si fosse presentato all’Areopago sottolineando la necessità di liberare tutti gli schiavi o di abolire gli amori omosessuali? Egli invece ha parlato del Dio sconosciuto invocato dagli schiavisti e non degli eterosessuali ateniesi. Ciò a cui non ha rinunciato è stato annunciare la Resurrezione. Con difficoltà è arrivato alla fine, ma se avesse cominciato dalla conseguenze non avrebbe potuto aprire bocca. Ci sono voluti tre secoli e molto sangue per conquistare la libertà e più di 1800 anni per l’uguaglianza. 

Una seconda situazione, particolarmente presente in Occidente, è il conflitto tra le dimensioni sociali dell’esercizio della libertà religiosa e altre libertà o beni che, a giudizio dei governi, è necessario tutelare. Gli esempi non mancano. La Legge Stasi (2004) proibisce in Francia i simboli religiosi in luoghi pubblici per cercare la neutralità. Nel 2007 il Governo Blair ha voluto obbligare cattolici e anglicani ad affidare a coppie omosessuali i bambini accolti nei loro centri. Obama nel 2010 ha voluto obbligare gli ospedali cattolici a utilizzare metodi contraccettivi non accettati dalla Chiesa. I conflitti aumentano perché la visione del mondo cristiana è sempre meno condivisa. 

La sfida in questo campo è grande. La libertà religiosa include la creazione di opere che permettano di agire conformemente alla visione del mondo che si ha. Nessuno può essere obbligato, almeno in casa sua, ad agire contro la propria coscienza. A meno che questo non sia contrario all’ordine pubblico o ad altri diritti fondamentali (così dice l’articolo 16 della Costituzione spagnola del ‘78 e la Legge sulla libertà religiosa del 1982). Il confine non è ben definito. I Sikh a Londra hanno sostenuto di non poter indossare il casco mentre guidano una moto perché il turbante è espressione della loro fede. Gli è stato risposto che l’ordine pubblico non poteva essere violato e che potevano spostarsi con la metropolitana. L’obiezione di coscienza sarà sempre più frequente è andrà regolata con precisione, sia quella personale che quella collettiva.

E anche qui il come è decisivo. La miglior tradizione cattolica non ha reclamato libertà per garantirsi una quota sociale (in questo caso di minoranza maggioritaria), per costruire luoghi di culto o per cercare di mantenere un’egemonia perduta. Ha esercitato “cattolicamente” queste libertà: a beneficio visibile di tutti, con passione e amore per il cammino di ciascuno. 

La terza situazione si verifica nei luoghi in cui i battezzati hanno difficoltà a esercitare l’aspetto più elementare della libertà religiosa. Una dimensione riconosciuta dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici. La libertà di credere, di manifestare quello che si crede e di cambiare religione non è tutelata in modo adeguato, pur essendo un diritto fondamentale, in molte regioni del pianeta. Le leggi anti-conversione in vigore in India dagli anni ‘30 del secolo scorso; le discriminazioni subite dai dalit (paria) per il fatto di abbracciare il cristianesimo nella più grande democrazia del mondo; le leggi promulgate nel 2000 e nel 2001 per far sì che la sharia sia applicata anche ai cristiani che vivono a nord della Nigeria; l’interpretazione della legge sulla blasfemia approvata in Pakistan dal Generale Zia nel 1986; l’editto di Daesh dell’agosto del 2014 a Mosul: sono tutti esempi di una coercizione estrema. 

Il progetto di risoluzione del Parlamento europeo 2015/2661 ha ricordato che, secondo l’Osce, ogni anno 150.000 cristiani muoiono a motivo della loro fede. Le cause di questa “grande persecuzione” sono diverse e tutte indesiderabili. Non sono state sufficientemente condannate o combattute. Ma praticamente in tutte vibra un come (martirio, perdono, fedeltà), eccezionale nella storia, che pone una domanda sull’origine (simile alla domanda che suscitava la persona di Gesù) e che è indubbiamente un grande contributo civile (pluralismo possibile in paesi a maggioranza musulmana, valore pubblico del fatto religioso, riconciliazione nazionale). 

In ognuna di queste tre situazioni, come nell’Areopago, quel che conta è rendere presente la novità che spinse San Paolo a viaggiare. Il come è determinante.

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