Europa, chi e cosa manca

L'uscita del Regno Unito dall'Unione europea è solo il risultato di un vuoto di ideali che ha segnato la storia di questa esperienza. Quale ragione serve per rimanervi? SALVATORE ABBRUZZESE

Difficile restare indifferenti alla vittoria del Leave che segna l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Non è in gioco infatti solo la stabilità dell’euro o il processo di unificazione in quanto tale. Al di là delle ricadute economiche e delle incertezze politiche, ciò che è emerso con il referendum inglese è la crisi – oramai esplicita ma già da tempo nell’aria – del progetto di conversione dello spazio europeo in una casa comune. Ciò che appare definitivamente in declino è infatti la prospettiva dell’Europa intesa come sede di un progetto di sviluppo, certo e solido al tempo stesso; un progetto che avrebbe dovuto realizzarsi all’interno dello scenario rassicurante di una poderosa tradizione culturale condivisa. Non è infatti un caso se sono proprio le fasce giovanili, quelle che più delle altre hanno l’esigenza della dimensione progettuale, a sentirsi ricacciate indietro dall’esito referendario e dall’effetto a catena che questo rischia di produrre.  

L’intervento di Papa Francesco, che parla di accogliere, dialogare e generare indica approdi irrinunciabili; segnala infatti quel “saper fare” indilazionabile senza il quale nulla è concretamente realizzabile. Ma è proprio un tale intervento che porta alla luce del sole il problema culturale centrale che ha strutturato la fase più recente del cammino europeo e che si può definire come la mancata coscienza del soggetto. Infatti si può accogliere, dialogare e generare solo a condizione di possedere una consapevolezza chiara di chi si è e ci si preoccupa di coltivarla. Per muoversi verso l’altro occorre, in altri termini, un’identità condivisa che nasca dalla consapevolezza di un patrimonio comune del quale ci si senta eredi e amministratori.

Ora è proprio una simile consapevolezza a non essere mai stata coltivata ed a restare confinata agli spazi dei convegni, fino ad essere stata ridotta ad un vuoto esercizio retorico. Nulla infatti è apparso più distante dalle agende di governo che un rinvio alla coscienza culturale dei diversi patrimoni nazionali. Abilmente rinviata al tema delle identità nazionali e da lì messa in quarantena in quanto ritenuta immancabilmente divisiva (come ha segnalato Joseph Weiler sull’ultimo numero di Tracce) una coscienza culturale europea non ha mai realmente visto la luce. Nei nostri programmi scolastici non c’è nessuna possibilità di uno studio organico della cultura di un altro paese europeo. Persino la conoscenza di massa della lingua inglese non ha nulla a che vedere con un tale obiettivo in quanto è limitata all’acquisizione del semplice strumento veicolare e non prevede nessuna apertura alla cultura (quindi alla letteratura, all’arte ed alla storia) del Regno Unito. Per non parlare di altre grandi tradizioni culturali come quella tedesca, francese, spagnola, polacca, di fatto semplicemente ignorate. 

Ora se ci si ostina a pensare che il problema della consapevolezza culturale della dimensione europea sia un elemento secondario e comunque non essenziale, ciò non avviene a caso. Di fatto il progetto europeo è stato inquinato fin dall’inizio da una temperie culturale che non sa che farsene di radici e di identità; così come non sa che farsene di qualsiasi cultura che non sia convertibile in pratiche operative, che non si dimostri cioè capace di portare vantaggi immediati e risolvere i problemi emergenti. Gli appelli a qualsiasi recupero della consapevolezza culturale suonano come puramente retorici e sono opportunamente de-potenziati da qualsiasi elemento che possa perturbare l’ideologia dominante. Il dimenticatoio nel quale sono state prontamente gettate le radici ebraico-cristiane dell’Europa in nome del primato della laicità secolarizzata ne costituisce l’esempio più evidente.

Una volta che ci si è sbarazzati della propria imbarazzante eredità culturale, riducendo l’Europa ad un puro affare commerciale, è perfettamente logico che l’intero percorso europeo finisca sotto la scure del bilancio profitti/perdite: china pericolosa non appena quest’ultime sono percepite, a torto o a ragione, come superiori ai primi. Quando ciò sembra accadere, la pressione per liberarsi da quello che si percepisce come un semplice accordo politico, si fa fortissima. 

Non c’è nessuna Europa possibile, nessun dialogo reale (e quindi nessuna accoglienza, né tanto meno capacità generativa) senza una consapevolezza culturale e sociale di ciò che si è, del cammino che si è percorso e dei patrimoni che si custodiscono. Un’Europa ridotta al solo primato della ragione interessata (della razionalità strumentale) non può bastare.

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