Il filobus pieno e le elezioni comunali

E' sempre più facile sentirsi estranei anche nelle grandi metropoli, anche in un filobus stipato di gente di tutto il mondo. Che cosa fa la differenza? Lo spiega PIGI COLOGNESI

Forse la colpa è di quel cielo grigio scuro che minaccia temporale e va avanti così da una settimana pur essendo l’inizio di giugno e allora per forza uno vede le cose in una luce sinistra. Forse la colpa è del fatto che un contrattempo ha complicato il pomeriggio di lavoro e mi ha costretto a tornare a casa in anticipo e allora nasce dentro un po’ di malumore. Malumore accresciuto dal fatto che un filobus, quasi vuoto, mi è sfrecciato davanti proprio mentre arrivavo alla fermata e a quest’ora il prossimo chissà quando passa. Forse la colpa è proprio del filobus che arriva strapieno, fatto sta che ci salgo decisamente — come si dice — “inverso” e, quindi, ipersensibile alle cose che non funzionano. Guardandomi attorno sono confermato in questo triste sentimento. Pur essendo pigiati l’uno sull’altro, nel filobus c’è uno strano silenzio, tutti sembrano preoccupati, arrabbiati, insofferenti; quasi nessuno ha in mano — come capita di solito — il suo cellulare su cui cerca o inserisce cose tendenzialmente inutili, ma nessuno parla col vicino (forse anche perché non sapresti in che lingua esprimerti dato che qui volti d’ogni razza compongono una torre di Babele in miniatura). Magari tutti stiamo pensando che abitiamo nella stessa città, pressappoco nella medesima zona visto che siamo sullo stesso mezzo pubblico, eppure siamo abissalmente estranei. E potenzialmente nemici. Lo si capisce dallo scatto irritato di chi si gira verso il vicino che per uno scossone del filobus lo ha urtato, dall’agitarsi scomposto di un altro che pure ha la fortuna di essere seduto e guarda fuori dal finestrino con uno sguardo che non vede niente, dall’insulto volgare che un passeggero appena sceso grida, in un italiano accentato alla sudamericana, ad un automobilista che non ha nessuna colpa.

Ad una fermata si vedono dei cartelli elettorali per le prossime elezioni amministrative; metà han su le usuali facce ridenti dei candidati che chiedono la preferenza, l’altra metà è innaturalmente bianca con, sotto il simbolo del Comune, una funerea scritta in nero: “Spazio non assegnato”. Certo, la ragione è che la propaganda elettorale non si fa più principalmente coi manifesti ma con i nuovi strumenti della Rete, mi dico. Ma penso anche che ci vuole coraggio per affrontare la sfida che governare una città come Milano (e tutte le altre, credo) pone. È una città fatta da un non-popolo come quello che assiepa il filobus, di legami e ideali comuni che devono essere ricostruiti da capo, di moduli di convivenza civile che devono essere reinventati, sperimentati, e prim’ancora voluti.

Adesso mentre scrivo (i risultati delle elezioni non li so ancora) l’umore è un po’ diverso da quello nereggiante di quel giorno e dovessi ora parlare della mia città avrei tante altre cose da dire, molte anche positive. Eppure la nera stilettata di allora mi resta dentro come un problematico invito: la mia città è tutta da costruire e ciascuno deve mettercisi con impegno non ovvio; per cui — direbbe Eliot — “ognuno al suo lavoro”. Anche se magari è un lavoro microscopico, come quello che mi è toccato di fare alla fine di quel mio viaggio, quando una vicina ansiosa, rompendo il silenzio imbarazzato, mi ha chiesto un’informazione su dove scendere; mi sono scosso dai pensieri bui e le ho risposto con precisione e tutta la gentilezza di cui ero capace. Sul filobus si è accesa una minuscola luce: ringraziando mi ha sorriso.

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