Per vivere, il coraggio del rischio

Dal lavoro alle relazioni affettive, emerge sempre di più la tendenza a tutelarsi con "meccanismi di controllo" rinunciando al coraggio di rischiare. GIORGIO VITTADINI

Enzo Ferrari soleva dire che tutta la sua fortuna era dipesa da quel direttore di banca che sulla fiducia gli aveva prestato cinque milioni di lire per cominciare l’attività. Il grande economista e banchiere Raffaele Mattioli si prese il rischio di finanziare l’Agip di Enrico Mattei perché dopo un colloquio con lui si era convinto della bontà del suo progetto. E quanti direttori di banca, che non saranno mai famosi, sono stati protagonisti dello sviluppo italiano perché, dando retta al loro fiuto, hanno concesso credito a imprenditori che avrebbero poi avuto successo. Oggi non sarebbe più possibile. E non solo per i famosi parametri di Basilea a cui le aziende devono uniformarsi per ricevere un finanziamento.

Il fatto è che manca la capacità di valutare e giudicare, qualità sostituite dalla spasmodica ricerca di garanzie e assicurazioni. “La società del rischio è diventata la società priva di copertura assicurativa”, come ha scritto il sociologo Ulrich Beck.

Perché è accaduto? E’ l’uso di valutazioni personali ad aver portato al disastro? In molti cercano di far credere questo. Eppure i recenti gravi problemi economici e finanziari sono scoppiati proprio mentre si sprecavano indagini patrimoniali, analisi sulla redditività e costruzioni di indici.

La questione non è demonizzare gli indici di valutazione: quando c’è qualcuno che li voglia e li sappia interpretare sono informazioni utilissime. Ma il problema è proprio qua: che ci sia questo qualcuno. Invece si pensa che per andare avanti occorra affidarsi a meccanismi che preservino dal rischio di sbagliare. E si è alla perenne ricerca di un “oggettivo incontrovertibile” che per essere tale non ha più bisogno della discrezionalità umana, che anzi deve essere fatta fuori.

E questo non avviene solo per ciò che riguarda il credito delle banche. Vale in tutti gli ambiti. In università ad esempio, dove in concorsi e valutazioni varie, il ricorso a impact factors, citations index e ogni altro pur giusto e utile indice bibliometrico fa sì che i più non leggano neanche gli articoli e rinuncino a incontrare i candidati: troppa opinabilità in una peer review, anche se affidata a persone qualificate! Chissà perché nei Paesi anglosassoni, a cui si dice di ispirarsi, ogni passaggio di carriera non possa prescindere dal giudizio personale e soggettivo di chi valuta!

E anche la vita quotidiana sembra essere inquinata da questa fuga dall’umano e dalla paura del rischio. Quanti giovani non sanno cosa fare quando si trovano davanti a una proposta di lavoro perché vogliono essere sicuri di non sbagliare e si aggirano chiedendo a tutti lumi oggettivi per giudicare. E non mancano quelli che, coinvolti in una storia amorosa, vorrebbero avere certezze matematiche anche nell’esperienza affettiva.
E non si cerca di mettersi al riparo dai rischi solo affidandosi a meccanismi, ma anche aspettandosi che persone disponibili si sostituiscano a noi nella fatica di costruire. Così, spinta dai media che oggi si scandalizzano, è nata la Seconda Repubblica, popolata da uomini della provvidenza al comando che poi ci hanno puntualmente deluso. Allo stesso modo, in pubblico e in privato, si cercano i guru, gli esperti di turno che diano un parere definitivo su ogni argomento. Non mancano poi lagnanze sulla perdita delle certezze che c’erano un tempo, come se l’andare avanti non dovesse implicare dei cambiamenti necessari con rischi annessi.

In una parola, si stanno perdendo quegli aspetti fondamentali dell’umano che stanno dietro al fiuto di chi è disponibile a rischiare. A partire dal realismo, quel tratto che, come insegna don Luigi Giussani, si fonda sulla capacità di osservare e valutare i segni evitandoci di sottoporre ad analisi chimica o a dimostrazione matematica gran parte dei nostri atti. O la ragionevolezza, che ci rende capaci di guardare la realtà in modo aperto, tesi a cogliere tutti i fattori implicati, giungendo a certezze progressive in passaggi anche infinitesimali verso la verità. E ancora, un altro aspetto, quello della moralità, che ci permette di non rimanere bloccati nei nostri pregiudizi. E infine, il concedersi e concedere agli altri di sbagliare, facendo tesoro degli errori.

Invece di pensare che si possa e si debba vivere senza sbagliare mai, sarebbe meglio tornare a usare il proprio cuore, quel “guazzabuglio” manzoniano infallibile nel segnalarci le esigenze fondamentali per vivere, per cercare la verità, la giustizia, la bellezza, che sono capaci di guidarci in ogni scelta rischiosa. Giovannino Guareschi, in Diario Clandestino, riporta un dialogo con dei giovani avuto durante la sua permanenza nel lager. I ragazzi invocavano la necessità di maestri che insegnassero loro cosa fosse la libertà una volta tornati in patria. Guareschi rispose: ma che maestri e maestri! Non c’è bisogno di maestri per sapere cosa sia la libertà. Basta rischiare di ascoltare veramente il fondo di se stessi.

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