Contenti di quello che si ha

Betsy Davis e Giovanna Romanato: due vite di fronte al male, due scelte diverse davanti alla domanda su cosa fare di se stessi, della vita e degli altri. SALVATORE ABBRUZZESE

La scelta di Betsy Davis, la giovane artista californiana di 41 anni malata di Sla, di optare per l’iniezione letale — adesso legale in California — non senza essersi regalata tre giorni di festa con i propri amici, sta facendo discutere. Le fotografie della festa, che la ritraggono in tutto lo splendore di una giovinezza ancora non intaccata dalla malattia, stanno facendo il giro del mondo. Il messaggio di queste foto è evidente: che bello poter avere la libertà di farsi dare la morte quando si è davanti ad un male incurabile, che bello poter lasciare il mondo in bellezza! C’è poco da dire: il senso della scelta è drammaticamente chiaro nella sua umanità (chi di noi non vorrebbe scegliere il modo in cui morire e tutti, immancabilmente, vorremmo addormentarci senza svegliarci il giorno dopo?). Il luogo e la forma poi, sono certamente spettacolari. C’è tutto ciò che la mitologia contemporanea pone sulla vetta dei desideri di ciascuno: dal concerto privato, al film migliore, alla pizza preferita, agli amici cari, al vestito sgargiante, allo splendido tramonto visto dalla collina. La morte per eutanasia consente di scegliere la migliore location possibile ed il messaggio mediatico è semplicemente ammaliante: è “la più bella morte che una  persona si possa dare” dichiara uno degli ospiti.
Ed ha drammaticamente e inesorabilmente ragione: è bellissimo andar via così. C’è la bellezza, assieme alla certezza di essere stati percepiti, e quindi a quella di essere ricordati anche da chi non ci ha mai conosciuto: quelle foto che stanno facendo il giro del mondo sono incancellabili. Betsy ha meravigliosamente assegnato un colpo da maestro al destino “cinico e baro” che voleva vederla paralizzarsi progressivamente e inesorabilmente spegnersi.
Niente da eccepire dunque. Per di più, con che diritto parlare? Meglio tacere per almeno due buone ragioni: Betsy ha già deciso e la scelta era (ed è) inesorabilmente sua; Betsy era dinanzi ad un dramma che farebbe impallidire chiunque tra noi e che, proprio per questo, va rispettato. Non si può che chinare il capo e fare rispettosamente silenzio.
Il pensiero va tuttavia ai malati terminali che hanno scelto di vivere sapendo tutto della loro malattia, e sono legioni. Come hanno fatto e come fanno a resistere? Sono solo un sottoprodotto della cultura religiosa? Sono semplicemente persone abbacinate dalla loro fede, una sorta di fondamentalisti della rassegnazione? Sono semplicemente persone che non hanno la possibilità (o la fortuna) di chiedere, come Betsy, l’iniezione letale? O c’è qualcos’altro? Sono tutte domande destinate a restare senza risposta: questa è nel segreto delle coscienze di ciascuna di queste persone e nessuna scienza può aiutarci a penetrarle.
Tuttavia si può ragionevolmente guardare a come vivono. Il caso più recente che ci offre la cronaca può essere quello di Giovanna Romanato, una donna genovese che, come la scomparsa Rosanna Benzi, vive in un polmone d’acciaio da 59 anni (rinvio al suo sito ed alla lettura del suo libro-intervista La farfalla nel bozzolo d’acciaio).

La location di Giovanna non ha nulla di spettacolare, la sua è una vita che, a priori, non esiteremmo a definire come dolorosa e costellata da grandi sacrifici. Eppure Giovanna Romanato ammette di avere moltissimi amici. “Sì, non so che cosa trovino in me. Dicono di sentirsi bene a starmi a fianco. Che c’è qualcosa in me che li fa stare bene. Una sorta di segreto, ma io non so che cosa sia. A loro dico semplicemente che bisogna essere sempre contenti di quello che si ha”, ed alla domanda su cosa lei pensi di avere, risponde candidamente: “Ho la vita. La vita è piena di cose belle: il mare, i monti, i fiori … Se non hai la vita ti perdi tutto. La vita è sempre un’esperienza emozionante” (dall’intervista a Famiglia Cristiana del 15 gennaio di quest’anno).
Tutta la forza di Giovanna è nascosta in questa frase, che traduce la sua capacità non solo di amare la vita, la sua vita, ma anche di intercettare l’affetto degli altri e di stupirsene.  
Giovanna e Betsy dinanzi alla tragedia di una malattia devastante e incurabile hanno fatto due scelte diverse. Verrebbe da chiedersi cosa le differenzi l’una dall’altra. Purtroppo, anche questa è una domanda alla quale non sappiamo dare una risposta. Possiamo solamente limitarci a dire che Giovanna sottolinea l’affetto degli altri, il suo sentirsi profondamente amata: tanto da chi non c’è più, come la madre, quanto da chi le sta accanto oggi, come le due badanti, il fratello, la cognata e gli amici, quanto ancora da chi, nella generazione successiva, si ricorderà certamente di lei: “i miei amatissimi nipoti”. Possiamo dire che Giovanna ha edificato il suo mondo di relazioni e di affetti e c’è riuscita.
E Betsy cosa ha fatto? Non possiamo conoscere fino in fondo le ragioni personali che l’hanno indotta ad andarsene. Forse ha pensato che, tutto sommato, potevamo fare a meno di lei. La nostra cultura individualista glielo ha fatto credere. Così le sue foto girano per il mondo, rappresentando “la più bella morte che una persona si possa dare”: le vedranno in milioni pensando che veramente sia proprio così. Giovanna ci sta invece insegnando una strada completamente diversa, quella della vita che si ottiene quando si riesce a percepire l’affetto degli altri, quando si riconosce di tenere a loro, quando si scopre di amarli e di essere amati.
E non c’è nulla di dolente in tutto questo: gli stessi amici che vanno a trovarla non ci vanno pietosamente per dare ma, al contrario, per ricevere. Perché chi insegna ad amare la vita è lei. Ed è questo il miracolo di Giovanna, la sua personale opera d’arte che non possiamo che ammirare, felici che sia tra noi.

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