Le imprese e le vergini stolte

Oltre alla domanda, giustamente sostenuta dal governo, occorre però pensare anche all'offerta di qualità. Solo così le imprese italiane tornano competitive. GIORGIO VITTADINI

Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nel suo intervento al Meeting di Rimini, ha fatto una affermazione che è suonata inusuale rispetto a quello che si sente normalmente da quando è iniziata la crisi, prima finanziaria e poi dei debiti sovrani. Si sono attuati, giustamente, in questi anni, interventi a favore della domanda di beni e servizi: i contributi di 80 euro ai meno abbienti, il quantitative easing, i bonus per l’acquisto di prodotti di vario tipo, si sono invocate riduzioni delle tasse. Boccia ha invece affermato che il governo nell’ambito della legge di stabilità 2017 dovrebbe fare “politica dell’offerta” e trovare “misure selettive di sostegno alla competitività dell’industria italiana”. Cosa significa questa affermazione?
Non vuol dire che sia sbagliato quanto fatto fino a oggi e che va ancora perseguito, perché in tempi di crisi c’è bisogno di sostenere i cittadini direttamente, ma che è giusto pensare finalmente anche all’offerta. In una parola, sostenere le imprese perché tutto il sistema possa rimettersi in sesto. Diminuire ad esempio soltanto i costi – e si punta fin troppo al ribasso – si è dimostrata una misura di troppo breve respiro. E’ invece pensando di rilanciare la competitività delle nostre imprese, in particolare aumentando la qualità dei prodotti, che l’Italia può ricominciare a fare la cosa per cui è divenuta a un certo punto del dopoguerra la settima potenza economica mondiale: insistere soprattutto sull’industrializzazione e non su commercio e finanza.
Sembra l’uovo di Colombo, ma di fatto è un uovo di Colombo dimenticato, salvo ricomparire  ogni tanto, improvvisamente, come in questi giorni. Nel dibattito corrente si dimentica che nella statistica economica non è importante solo la media ma anche la varianza. Vale a dire che esiste una enorme variabilità tra le imprese italiane: su sei milioni di imprese quelle che si sono internazionalizzate e quindi sono competitive fuori dei confini italiani sono solo 20.000, forse 25.000. Non molte, ma tutte hanno puntato sulla qualità dei loro prodotti.
Sono le imprese trainanti il Made in Italy: abbigliamento-moda, arredo-design, automazione meccanica, agroalimentare. Tutto il mondo ci invidia la capacità di beni di consumo capaci di esprimere bellezza, lusso, comodità, qualità e questo vale anche per i prodotti agricoli. Pensiamo alla leadership italiana nella produzione del vino. Si pensi poi al Salone del Mobile che a novembre per la prima volta aprirà i battenti in Cina, o ai “sistemi per produrre” dove l’Italia è il quarto produttore e il terzo esportatore al mondo, ed anche il comparto delle macchine utensili su misura.
Ma crescono anche tante imprese in settori diversi, dove altre aziende stanno morendo: il chimico (Mapei), il tessile (Yamamay, Calzedonia), i prodotti per bambini (Chicco), il farmaceutico (Menarini), le attrezzature sportive (Technogym). Sono sia multinazionali “tascabili” (come Ferrero, Barilla, Benetton) che imprese medie e piccole, capaci con la loro flessibilità di reggere il mercato. Non è detto che siano solo private: sono anche grandi imprese a maggioranza pubblica (Eni, Finmeccanica). E non è detto che siano quotate in borsa: molte di loro, come la Mapei, spesso preferiscono investire in ricerca che quotarsi nelle piazze d’affari e sottoporsi al ricatto della distribuzione trimestrale degli utili che impedisce loro di investire in ricerca.

Perché alla domanda si aggiunga un’azione sull’offerta devono saltare certi stereotipi ideologici con cui si è identificato il modello di impresa moderna. Occorre partire dalla realtà: dalle imprese virtuose anche se, contro le teorie in voga, sono piccole o non quotate, sono pubbliche o operano in settori “decotti”. Ciò che accomuna queste aziende con il vento in poppa sono aspetti spesso negletti: la decisione di cambiar pelle per sopravvivere, la scommessa sul capitale umano, l’introduzione di nuovi metodi organizzativi e di processi produttivi adatti al mercato che cambia.
Ma soprattutto il loro successo è dato da ciò che sta a monte di tutto questo: la mentalità dei loro imprenditori e manager. A differenza dei personaggi affamati di potere figli di Wall Street, alla Gordon Gecco-Michael Duglas, sono persone capaci di rischiare e di impostare la vita, e non solo l’impresa, su ideali e quindi in grado di trasmettere la loro passione per il prodotto ai lavoratori, ai clienti, ai fornitori, ai figli nel passaggio generazionale. Il primo investimento di un’Italia che vuole ripartire dall’offerta non è infatti strettamente economico: occorre ritornare a educare le persone a ideali che allargano il cuore di chi intraprende e lavora.
Puntando così anche sull’offerta si ha una seconda conseguenza importante, contenuta nell’intervento sempre al Meeting di Massimo Carboniero, presidente di Ucimu, presentando il Rapporto 2016 della Fondazione per la Sussidiarietà. La politica economica orientata alle imprese deve imparare a individuare i soggetti veramente meritevoli di sostegno utilizzando sensori nuovi (esplorando tutte le dimensioni dell’imprenditorialità, non solo la contabilità grezza) e aiutandole poi con strumenti affinati e coerenti.
Vale a dire: è necessario detassare, aiutare le imprese a dotarsi di tecnologie adeguate, sostenere la digitalizzazione, promuovere super-ammortamenti per svecchiare il parco macchine, attuare una politica generalizzata per l’internazionalizzazione, spingere le banche a finanziare le imprese. Ma non si può più farlo per tutte: si rischia di scoprire, come nella parabola evangelica delle vergini stolte, che l’olio non basta a quelle che sono in crisi e non sia invece sufficiente per quelle che funzionano.
Occorre intervenire sulla base dei risultati a favore delle aziende che producono, investono, danno occupazione (anche e soprattutto a laureati e a persone formate in modo professionalmente adeguato), esportano. Se si vuole superare la crisi occorre non perseguire un inutile e inetto egualitarismo difendendo ciò che è senza futuro o corrispondente ai propri stereotipi, ma sostenere il merito e attuare un coraggioso cambiamento come può avvenire se la strategia “Industria 4.0” in cantiere fra governo e organizzazioni imprenditoriali sarà realmente attuata in modo corretto.
Allo stesso tempo si possono aiutare le altre imprese in modo indolore indirizzando titolari e dipendenti verso nuova occupazione: oggi chiudono lo stesso senza alcun aiuto esterno e il prezzo lo paghiamo tutti. Solo il serpente che cambia pelle non muore e può aiutare gli altri serpenti a sopravvivere.

Ti potrebbe interessare anche

Ultime notizie

Ben Tornato!

Accedi al tuo account

Create New Account!

Fill the forms bellow to register

Recupera la tua password

Inserisci il tuo nome utente o indirizzo email per reimpostare la password.