La “via di fuga” per la verità

L'Economist ha affrontato un argomento quanto mai attuale, parlando di post-verità, un termine che risale già agli inizi del secolo. Di FERNANDO DE HARO

Trump si è corretto e ha finalmente messo da parte una delle bugie della sua campagna elettorale. Ha riconosciuto, infatti, che Obama è nato negli Stati Uniti. Continua comunque a ripetere altre menzogne, come l’accusa a Hillary e all’attuale Presidente di aver fondato Daesh o l’affermazione secondo cui gli Stati Uniti sono il Paese con più tasse al mondo.

La dichiarazione di Trump (“Barack Obama è nato negli Stati Uniti. Punto”) è stata fatta pochi giorni dopo che l’Economist ha dedicato la copertina e un ampio servizio a “l’arte di mentire” e alla “post-verità”. È improbabile che il candidato repubblicano abbia deciso di cambiare posizione a seguito di quel che è stato scritto da un settimanale sull’altra sponda dell’Atlantico, sebbene si tratti di uno dei più prestigiosi. È interessante comunque il fatto che il mondo liberale, di cui l’Economist è uno dei più prestigiosi e intelligenti referenti, si occupi di qualcosa che va oltre il buon funzionamento del mercato ed entri in una questione così sostanziale come quella della verità e della menzogna.

Il termine post-verità in realtà non è nuovo. Lo ha utilizzato nel 2010 il blogger David Roberts, riprendendo il titolo di un libro di Ralph Keyes del 2004 (“The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary”). La menzogna è sempre esistita in politica, ma ora ci troveremmo davanti a una cultura pubblica, favorita dai media, scollegata dalla legge e dalla realtà. Ciò permette a Trump di guadagnare consensi facendo passare per fatti delle puri invenzioni, a certi settori della Polonia di sostenere che l’ex Presidente è stato ucciso dai russi, a Erdogan di suggerire che dietro il tentato golpe di questa estate ci sia la Cia. La novità non è che chi ascolta queste notizie le prende per vere, ma che si vuole spacciarle per tali. Non importa la loro veridicità, ma solo i sentimenti che generano. Il vecchio potere imponeva la censura dall’esterno, mentre quello nuovo lo fa dall’interno: l’appartenenza a una certa sensibilità è la cosa più importante.

La post-verità, secondo gli esperti, è stata resa possibile dalla perdita di fiducia nelle istituzioni e da un profondo cambiamento nelle modalità di accesso alle informazioni. Il processo è iniziato negli anni ’80-90 con il successo dei canali satellitari, che hanno cominciato a fornire contenuti sempre più specifici per target, in modo che ciascuno potesse vedere e ascoltare quel che voleva. Il processo è stato poi accelerato dal legame che genera un certo uso delle reti sociali: se su Twitter o Facebook seguo solamente quelle fonti o quegli amici che confermano la mia visione del mondo, è facile che il mondo resti fuori dallo schermo del mio computer o del mio smartphone. In sintesi, prima si crede e poi si conosce.

Si crede in alcuni determinati valori e in funzione di questa selezione si conosce una certa parte del mondo (reale o fittizia), l’unica con cui si vuole stare in contatto. Il processo logico di qualunque atto di fiducia si è invertito (l’atto di fede sano è sempre conseguenza della conoscenza). Noi postmoderni abbiamo innalzato un muro più alto possibile rispetto al resto che, in un certo modo, non siamo noi. Si tratta di un nuovo giro di vite sul razionalismo che resta prigioniero dei sentimenti.

L’analisi è accurata, ma la risposta è povera. Si chiede un riarmo morale, l’autocensura dei media e la conoscenza del passato per promuovere la capacità di comparazione. Come se ciò fosse possibile! Invocare l’oggettività non desiderata conduce all’impotenza quando abbiamo perso il contatto con la realtà, rifugiandoci nei nostri “club”. A queste altezze la denuncia del relativismo e la richiesta di una verità oggettiva possono essere una gran fonte di frustrazione se non si indica il cammino che permetta di percepirla come vantaggiosa.

C’è un racconto di David Foster Wallace che, in questo contesto, risulta molto attuale. Si intitola “La vista da casa Thompson” e parla di com’è stata vissuta la mattinata dell’11 settembre in una cittadina del Midwest. Nessuno può negare a Wallace la condizione di postmoderno ed egli evidenzia che appartiene a una “America differente” rispetto a quella che riempie le case di bandiere, che resta incollata davanti alla tv mentre cadono le torri o che ascolta con ammirazione Bush. Ma Wallace, che segue l’attentato dal soggiorno della signora Thompson, una delle donne di questa America-che-non-è-la-sua, non può smettere di sorprendersi dalla sincerità delle preghiere, dalla cultura dei suoi insospettabili compagni perché “nessuno era abbastanza sofisticato da presentare l’ovvio e perverso reclamo postmoderno: questo l’abbiamo già visto”. Il cronista resta nel soggiorno della signora Thompson perché non ha il televisore e perché appartiene alla sua chiesa, a cui non va.

Possiamo fidarci di incontri imprevedibili, ma assolutamente reali perché cadano le alte mura che abbiamo costruito di fronte al mondo? Sembra che non ci siano alternative.

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