Meeting: due presidenti, un bene comune

In una situazione politica più conflittuale e confusa che mai conviene affidarsi a quanto detto da Napolitano e Mattarella al Meeting di Rimini: il bene comune. GIORGIO VITTADINI

Non c’è niente da fare: nemmeno una situazione sociale ed economica, nazionale e globale, così critica, riesce a convincere i nostri politici a deporre le armi e ad affrontare con serietà gli interessi della “cosa pubblica”. Come se la politica non potesse vivere che della neutralizzazione dell’avversario. L’alternativa non è, come pensano in molti, l’inciucio, ma cose infondo semplicissime come responsabilità e interesse per il bene comune. Quello che hanno richiamato i due ultimi presidenti della Repubblica quando sono stati invitati al Meeting di Rimini: Napolitano nel 2011 e Mattarella quest’anno.

All’inizio del 2011, dopo vent’anni di teatrino dei demiurghi di destra e di sinistra che avevano diviso il Paese senza risolvere alcuno dei suoi problemi, si assistette a un dialogo originale e inaspettato tra Benedetto XVI e Napolitano. Il papa, in forte discontinuità con quella visione negativa dell’unità d’Italia che risaliva addirittura al “Non éxpedit” di Pio IX, rivendicò il contributo positivo di molti cattolici al processo risorgimentale.

Anche il capo dello Stato si pose in rottura con il pensiero dominante laicista che vede i cattolici come nemici del processo di unificazione, e accettò questo tipo di lettura storica.

In questo contesto il Meeting organizzò una mostra sui 150 anni di sussidiarietà per sottolineare come l’Italia fosse stata costruita soprattutto dal basso, dal lavoro e dall’iniziativa di tante persone di diverse idealità (cattolica, comunista, liberale, socialista) che misero da parte ciò che li divideva e collaborarono insieme alla costruzione del Paese. Fu in questo contesto che don Sturzo superò il “Non éxpedit”, cominciando dalle amministrative di Caltagirone nel 1902, per poi fondare il Partito popolare e quindi collaborando alla guida della nazione nel governo Giolitti.

A tutto questo si richiamò Napolitano nel suo discorso al Meeting, affermando che, nella sua storia, l’Italia unita aveva superato gravissimi problemi, non solo grazie all’impegno delle istituzioni, ma anche a quello delle singole persone, delle comunità locali, dei corpi intermedi, secondo quella logica di sussidiarietà documentata quest’anno al Meeting in occasione dei 70 anni della Repubblica. Parlando dell’attualità di quei giorni, Napolitano aggiunse: “E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo”.

L’ex capo dello Stato diede una grande importanza a questo suo appello al punto tale da citarlo nel discorso fatto al Parlamento in occasione dell’insediamento per il suo secondo mandato: “Parlando a Rimini – disse in quella occasione – a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011 volli rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150esimo della nascita del nostro Stato unitario: l’impegno a trasmettere piena coscienza di quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e delle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”.

Cinque anni dopo purtroppo poco è cambiato. Le forze politiche si denigrano a vicenda e usano tutto, persino la Carta costituzionale, per delegittimare l’avversario, elargendo in abbondanza l’illusione che facendolo fuori e aumentando il proprio potere i problemi dell’Italia saranno risolti.

Al Meeting di quest’anno, nella mostra e negli incontri sui 70 anni della Repubblica, è più volte emerso come un continuo compromesso virtuoso per il bene comune abbia permesso a forze culturali e politiche spesso contrapposte di superare problemi gravi come quelli del dopoguerra. Il presidente Sergio Mattarella ha ricordato, in continuità con Napolitano, che “nessuno può seriamente pensare di farcela da solo. Allargare le divisioni ci rende più deboli (…). Gli inevitabili contrasti che animano la dialettica democratica non devono farci dimenticare che i momenti di unità sono decisivi nella vita di una nazione. E che talvolta sono anche doverosi. E’ un grande merito saperli riconoscere (…). Un Paese che non sa trovare occasioni di unità, diventa più debole”.

E’ un appello a un impegno comune che non ha solo un valore morale, ma politico: lo scopo della democrazia non è quello di un gioco di gladiatori dove uno vince e l’altro soccombe. Implica invece l’individuazione di scopi comuni verso cui tutti dovrebbero convergere e richiede la stima dell’avversario con cui collaborare, soprattutto da parte di chi si professa cattolico. Da questo punto di vista proprio per i cattolici sembra oggi riproporsi quell’alternativa di metodo che già si è verificata in altri momenti della storia italiana: la scelta tra il “Non éxpedit”, rovinosa per l’Italia e per la Chiesa, da una parte, e l’opera dei congressi e il Partito popolare di Sturzo, dall’altra; la dedizione disinteressata e intelligente di De Gasperi o la lettura trionfalistica ed egemonica della vittoria del ’48, accompagnata dall’idolatria per lo Stato e una occupazione clientelare dello stesso.

Vediamo ripetersi questa divisione tra chi spera fideisticamente in uno degli schieramenti partitici disprezzando gli altri e chi, più realisticamente, qualunque sia la sua l’opzione politica, vuole costruire  corpi intermedi che educhino all’ideale e collaborino con tutti per il bene comune, dialogando con la politica a partire da questi tentativi.

Sembra più ingenuo, ma è l’unico modo per non essere schiavi di qualche potere e liberi di dare il proprio contributo alla storia.

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