La paternità di Dio

Da San Paolo a papa Francesco, per il cristiano il significato del viaggio e del muoversi verso l'altro sta nel farsi strumenti di Dio: uscire incontro agli uomini. GIOVANNA PARRAVICINI

Si è chiusa ieri la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, tradizionalmente fissata dalla Chiesa nei giorni dal 18 al 25 gennaio. Quest’anno il brano di san Paolo (2 Cor 5,14-20) proposto come traccia di riflessione parla di una situazione estrema, dell’esperienza di un uomo che non può darsi pace e trascina la propria vita in avventure rischiose e in estenuanti viaggi missionari per amore, spinto dall’inesausto amore di Cristo che ha dato la vita per lui, per ogni uomo. “Infatti, l’amore di Cristo ci spinge, perché siamo sicuri che uno morì per tutti, e quindi che tutti partecipano alla sua morte. Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro”.

Proprio in questa settimana, il 22 gennaio, cade il compleanno di padre Aleksandr Men’, un uomo che senza alcun dubbio ha vissuto ed è morto con questa urgenza, sentendosi oggetto di una preferenza amorosa che lo spingeva instancabilmente a condividere la propria vita, il proprio tempo, le proprie energie, il proprio affetto, con chiunque incontrasse sul proprio cammino. In perfetta letizia e senza rimpianti.

Della stessa urgenza ho risentito l’eco leggendo alcune pagine dei dialoghi di papa Francesco con Andrea Tornielli recentemente usciti nel volume In viaggio: “Non mi piace molto viaggiare – ammette il pontefice, rievocando la meta della sua prima uscita – ma a Lampedusa ho sentito che dovevo andare. Mi avevano toccato e commosso le notizie sui migranti morti in mare, inabissati. Bambini, donne, giovani uomini… Una tragedia straziante”. E così, davanti al susseguirsi di inviti, di appelli da tutto il mondo, “ho risposto semplicemente di sì, lasciandomi in qualche modo ‘portare’. E ora sento che devo fare i viaggi, andare a visitare le Chiese, incoraggiare i semi di speranza che ci sono”.

Un “lasciarsi portare” dal bisogno e dal dolore degli uomini, che coincide con un lasciarsi portare da Dio che detta mete e criteri dei viaggi, induce a preferire i luoghi di maggior povertà, a tagliare formalità e protocolli per lasciare il maggior spazio possibile all’incontro reale. E detta anche l’audacia di non recedere dalla responsabilità conferitaci dall’essere “ambasciatori inviati da Cristo, ed è come se Dio stesso esortasse per mezzo nostro”; e insieme detta il realismo di chi comprende che autore della missione è Cristo stesso, di cui non siamo che semplici portatori. 

Rifacendosi a un’affermazione dell’allora cardinale Albino Luciani, papa Francesco non esita a chiedere: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?”.

Il “viaggio” è in qualche modo una metafora della missione: l'”uscire” incontro agli uomini, spinti dall’amore di Cristo, può significare lunghi voli aerei come anche il quotidiano tragitto in treno o in metropolitana – così era per padre Aleksandr – oppure la semplice decisione di guardare in volto chi si ha accanto, gomito a gomito, nella stessa stanza.

Uomini spronati, “punti” dall’amore di Cristo, che generano pace, riconciliazione, che sono all’origine della rinascita di tante persone. Degli autentici padri. Chi non ricorda così padre Men’, a tanti anni, ormai, dalla sua tragica scomparsa? Non innanzitutto come il brillante oratore, l’affascinante uomo di cultura, il dotto biblista, ma come il padre a cui si sapeva di poter ricorrere in qualunque situazione perché ti avrebbe guardato restaurando in te la dignità in cui tu stesso non osavi più sperare… 

Chi non ricorda come “padri” le figure che l’hanno accompagnato e rigenerato nella vita? Proprio nell’accento posto sulla “paternità” da Paolo VI (si tratta, non a caso, di parole pronunciate al suo ritorno dal viaggio in India), mi sembra racchiuso il senso non solo della chiamata del successore di san Pietro, ma anche dell’urgenza insita in ogni vocazione cristiana, che si trasforma in incontro, commosso abbraccio e riconoscimento di una fraternità radicata nell’amore e nel perdono di Dio: “Io credo che di tutte le dignità di un Papa, la più invidiabile sia la paternità. La paternità è un sentimento che invade lo spirito e il cuore, che ci accompagna a ogni ora del giorno, che non può diminuire, ma che si accresce, perché cresce il numero dei figli. È un sentimento che non affatica, non stanca, che riposa da ogni stanchezza. Mai, neanche un momento, mi sono sentito stanco quando alzavo la mano per benedire. No, io non mi stancherò mai di benedire o di perdonare”.

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