Il rancore che (non) siamo

Siamo pieni di risentimento, lo dicono anche le statistiche. Dunque la nostra "crisi" non è solo materiale. Essa nasce, puntualmente, quando non accogliamo la realtà. FEDERICO PICHETTO

Rancorosi e arrabbiati. Il 51esimo rapporto del Censis sull’Italia si mostra impietoso proprio verso gli italiani, che ritrovano il gusto del benessere, ma non riescono ancora a definire un orizzonte oltre la crisi. Non serve uno studio per comprendere quanta verità ci sia in questi dati: le cronache, i social media, i rapporti lavorativi e familiari sono intrisi di rabbia e di rancore. A volte non si tratta di furori espliciti, ma di sottili risentimenti che si manifestano contro il vicino di casa, l’automobilista della fila accanto alla nostra, il marito che non ha ancora capito quanto sia importante una certa cosa. Ne soffrono un po’ tutti, ma soprattutto le persone di mezza età, i pensionati e i giovanissimi. Una corrente di instabilità attraversa così questa fine di decennio, restituendoci l’istantanea di un paese permaloso, infastidito, a tratti aggressivo. 

Da dove nasce dunque questo risentimento? Che cosa genera un sommovimento che trasversalmente tocca la vita sociale, economica, politica e privata dei nostri giorni? 

La prima origine della rabbia sta nella mancanza di accettazione radicale del dato, nella mancanza di accoglienza disarmata della realtà. Sempre più spesso ciò che non accettiamo è che la vita sia andata così, che la mia vita sia andata così. Eppure siamo in presenza solo della punta dell’iceberg. Infatti la vita non è accolta per quello che è, viene rifiutata radicalmente, semplicemente perché non si ammette che l’esistenza sia complessa. Siamo rimasti all’ideale delle favole: il bene contro il male, i buoni contro i cattivi. E quando c’è da raccontare una storia, noi siamo sempre tra i buoni o siamo i più affascinanti e i più moralmente retti tra i cattivi. 

La complessità, prima ancora di essere accettata nella società nelle sue infinite declinazioni, non è accettata in noi: vorremmo essere persone semplici che vivono nella luce, ma siamo un groviglio di Mistero che cammina nel chiaroscuro della storia. E questo ci scandalizza. Perfino quando raccontiamo dei nostri errori o delle nostre fragilità siamo tentati di sottolineare che ormai il peggio è passato, che ormai il male è alle spalle. 

Sappiamo bene che non è così. I cristiani sono soliti usare la fede come una sorta di panacea: ero brutto e cattivo, andava tutto male, poi ho incontrato la fede e adesso tutto “torna”, tutto funziona. Questo, specie nei ragazzi che hanno fiuto per queste cose, rende insopportabile l’esperienza della fede. Anche perché, per dirla con Nietzsche, sempre più spesso noi cristiani diciamo di essere salvati ma non ne abbiamo la faccia. C’è un’ultima incoerenza tra il racconto che facciamo di noi stessi e quello che siamo. E questo accade perché temiamo che, accettando quello che siamo, non arrivi nessuno ad amarci.

Quanta saggezza ha la Chiesa nel chiederci, almeno una volta all’anno, di ricominciare ad attendere, di non temere di essere poveri pastori, profughi, rifugiati: una Luce per noi è in cammino e questa Luce desidera solo incontrarci. È la forza tipica dell’Avvento: squarciare le nostre misure per aprirci alla Speranza di Uno, di un Bambino, che viene oggi, che entra nella nostra vita oggi. 

Perché allora questa bella “teoria”, che in tanti magari sappiamo a memoria, ci risulta poi così lontana dal cuore? Perché, in fin dei conti, a noi la rabbia e il rancore piacciono: ci illudono che il mondo sia semplice, che i nemici siano sempre gli altri, che ogni nostra parola sguaiata sia dunque plausibile e giustificabile. Noi ci stiamo bene nei nostri risentimenti, ci fanno comodo. Era questo il sentire comune dei “compaesani” di Maria, gli abitanti di Nazareth: vivevano certi di avere un nemico. Ed era questa certezza che li rendeva vivi e combattivi. Come dovette risultare loro strana quella ragazza, che in mezzo alla complessità dei tempi era invece certa di avere Qualcuno che l’avesse amata e che l’avesse preferita. 

Dio scelse di costruire non sulle buone ragioni di chi conosceva i propri nemici. Dio si affidò alla libertà di una ragazza che accolse la contraddittorietà della vita, la contraddittorietà di essere Vergine e di essere Madre. E accanto a lei si mise ad aspettare il cuore di tutti noi. Lavato dalla rabbia, grato per essere stato ancora una volta preferito, pronto ad arrendersi al fatto che il cambiamento più grande è accettare la realtà che ci è toccata da vivere come un dono misterioso ancora tutto da scoprire.

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