Chi si sbatte e chi vive nella giara

In Italia i casi di innovazione in molti settori diversi fra loro sono più di quanti immaginiamo. Ma lo Stato incentiva e sostiene poco queste realtà con danno per tutti. GIORGIO VITTADINI

Quando è che una rondine fa primavera? Perché tanta capacità di creare e innovare non riesce a far decollare il nostro Paese? Qualche esempio per intenderci.

Il primo è uno dei tanti casi che sfata la leggenda secondo cui noi italiani per riuscire in risultati eclatanti dobbiamo fuggire all’estero e riguarda una delle avanguardie mondiali  nella lotta ai tumori: il reparto dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese dedicato all’immunoterapia oncologica (unico della sanità pubblica italiana), in cui si sono identificati farmaci specifici in grado di tenere sotto controllo e in molti casi sconfiggere le cellule tumorali rinforzando il sistema immunitario. La scoperta è stata inserita dalla rivista specializzata Science tra le dieci maggiori innovazioni scientifiche al mondo.

Dai tumori alle api. Tre giovani ricercatori italiani hanno dato vita al progetto 3Bee, una sorta di arnia tecnologica in cui le api – fondamentali per l’ecosistema – sono protette e salvaguardate. Non solo: il progetto è in grado di aiutare gli apicoltori tramite l’ottimizzazione dei processi gestionali dell’apiario, un servizio antifurto e il monitoraggio costante, mentre anche i consumatori possono avvantaggiarsene grazie alla tracciabilità dei prodotti dell’alveare e a una maggiore trasparenza della filiera agroalimentare.

Dalle api al patrimonio archeologico. C’è una start-up, l’Associazione di Promozione Turistica Sud Tourism, nata per promuovere e valorizzare le risorse paesaggistiche, ambientali, gastronomiche, storiche ed artistiche della Sicilia, favorendo lo sviluppo della cultura dell’ospitalità, del turismo e dei servizi ad essi correlati che si è messa a restaurare  e valorizzare i sette siti archeologici di Ragusa, patrimonio dell’Unesco, che rischiavano di giacere abbandonati.

Dal patrimonio archeologico allo spazio. Un giovane fisico, dopo un’esperienza in Finmeccanica, nel 2001 fonda la Flyby, con sede nel garage di casa sua a Livorno. Flyby è oggi una Pmi che, nel 2014, insieme a Enel ha creato una start-up (i-EM) che sfrutta i satelliti per monitorare gli impianti che producono energia rinnovabile; collabora con l’ESA nella realizzazione di un sistema, denominato i-fishSAT, che traccia la qualità del pesce attraverso le tecnologie messe a disposizione da diverse tipologie di satelliti; lavora ancora, con una azienda israeliana e con altre aziende straniere nel settore del controllo e della stima dell’erosione costiera da satellite e da drone.

Si potrebbe continuare, perché la creatività nel nostro Paese non manca e spazia in ogni settore. Ma c’è innanzitutto da rimanere stupiti nell’apprendere che nel 2015 il numero di brevetti nel settore del capitale umano era di 0,24 ogni mille abitanti contro i 5,22 della Corea del Sud e i 2,58 degli Stati Uniti.

Il fatto è che questa creatività è il principale fattore che potrebbe farci uscire dalla crisi, se è vero quanto dice Enrico Moretti, economista a Berkeley secondo cui ogni nuovo posto di lavoro creato nel settore dell’innovazione ne fa nascere altri cinque in tutti quei settori che producono servizi sussidiari e personali ed è un dato di fatto che le economie avanzate crescono se innovano. Ma nel nostro Paese il sostegno pubblico a questa capacità di innovare, viva e vegeta, è irrilevante per quantità e qualità. Per quantità perché seguendo i maître à penser che hanno teorizzato prima della crisi finanziaria che il liberismo è di sinistra si è rinunciato alla spesa pubblica come leva per lo sviluppo. O meglio si continua a non toccare la spesa corrente o a incentivarla in mance elettorali dimenticando Keynes. Nella qualità perché la poca spesa per investimento pubblico è spesso a pioggia, incapace da una parte di selezionare e assumersi la responsabilità di scelte e rischi e dall’altra prescinde dai risultati. Sostenere ciò che funziona non è un dovere da assolvere obtorto collo, ma una sfida a cui la politica economica dovrebbe partecipare con criterio. Gli investimenti invece sembrano troppo spesso distribuiti per accontentare i falsi corpi intermedi divenuti corporazioni private di diritto, ma, di fatto, di parastato, che intercettano clientelarmente i fondi senza attenzione al merito.

Perché non seguire l’esempio di paesi come il Regno Unito o la Francia dove il regime di incentivi pubblici razionalizzati è una realtà dal forte impatto e dopo un primo sobrio finanziamento iniziale alloca i fondi pubblici in modo selettivo sulla base dei risultati ottenuti e non del peso parapolitico? Si riuscirebbe così a lanciare e sostenere i tanti giovani – oggi abbandonati a se stessi – che già creano start up nei campi del manifatturiero avanzato, dell’economia digitale, della medicina, della biologia e farmaceutica, della robotica, del turismo della logistica, dei trasporti, della comunicazione, del turismo, della natura, della cultura.

Una logica sussidiaria, cioè di valorizzazione di quello che nasce e cresce “dal basso”, potrebbe in questo modo indirizzare la spesa pubblica, in modo che vengano premiati i risultati ottenuti e siano moltiplicate quindi le possibilità di crescita. Non si può uscire dalla crisi se non si fanno delle scelte, se non c’è un pubblico che si allea selettivamente con ciò che sul campo funziona, pubblico o privato, anche piccolo.

Occorre lasciare alla sua strada chi, come il famoso personaggio della novella di Pirandello, trovatosi fortuitamente all’interno di una giara, preferisce rimanerci pigro e inerte senza tentare di uscirne…

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