Francesco e la panetteria in periferia

Tra la gente comune, c'è un popolo che si incontra condividendo la propria esistenza, tra lavoro, famiglia e fatica quotidiana. Senza aspettare alcun demiurgo. GIORGIO VITTADINI

A due settimane dalla visita del papa a Milano, in tanti parlano ancora delle sue parole semplici e profonde, ma soprattutto dei suoi gesti, dell’abbraccio appassionato e commosso a carcerati, immigrati, portatori di handicap e gente comune.

A rendere speciale quella giornata c’è stato però un altro fatto: il popolo che lo ha accolto. Non solo per il numero imponente di persone, ma per la loro compostezza e per quella che è apparsa come una “strana”, consapevole apertura a quanto stava avvenendo. Persone disposte a fare lunghissime camminate e ad aspettare nelle stazioni senza lamentarsi più di tanto dell'”organizzazione”.

Ma cosa c’è dietro alla singolarità di questo popolo? Guardiamo a una semplice storia.

Tra grandi edifici di case popolari nella periferia nord di Milano, su uno stradone a lunga percorrenza trafficato di pendolari che tornano nella tranquilla Brianza dopo una giornata di lavoro, si affaccia una caffetteria-panetteria. Il papa ha percorso quella strada, diretto al parco di Monza e Mimmo, il titolare, è uscito sulla soglia del negozio a guardarlo passare pieno di attesa. Mimmo, originario della Calabria, è a Milano da una vita: tutti nel quartiere lo conoscono, un brav’uomo sotto al grembiule, un piccolo imprenditore. Alle prese con le difficoltà della crisi e del suo settore, se ne inventa di tutte e da poco, per allargare il “giro” e far quadrare meglio i conti, ha aggiunto la caffetteria al panificio. Il negozio è un piccolo punto di ritrovo della zona. A volte si accende raccontando le sue difficoltà, sul bisogno di non essere così oberato da burocrazia e tasse: “Che si prendessero tutto il negozio loro, ma che mi facciano lavorare”. E’ stanco, anche un po’ demotivato ma non molla.

Alcuni dei suoi amici quel giorno sono andati a incontrare Francesco, a Monza e a San Siro. C’era Giovanni, padre di 8 figli, cresciuto all’oratorio, uno pieno di entusiasmo che fa il chimico in una grande azienda. C’era Stefano, lontano per anni dalla Chiesa, ha ricominciato a frequentarla da qualche tempo, da quando le figlie frequentano la scuola parrocchiale. Tra la messa alla domenica e nuove amicizie, inizia a sorprendersi di come il suo desiderio e il suo cuore non siano sbagliati come a volte pensa. E che il lunedì mattina è diverso se nel weekend si sta insieme agli amici. Lavora nel settore alimentare, gli piace parlare dei rapporti con i suoi clienti, ogni giorno una sfida e un incontro con qualcuno di diverso. C’era Claudio, dirigente di un’azienda, che fatica a seguire i ritmi forsennati necessari per stare a galla, ma così incompatibili con la famiglia e che è pieno di domande davanti a quelle logiche di gestione del personale, così disumane, che impongono di licenziare a caso o di promuovere senza meriti.

E tra gli amici di Mimmo c’è anche Carmine, 55 anni. Non è andato da Francesco. Ma si è affacciato dal balcone per vederlo passare chiedendo a chi era dal papa di mandare tante foto. Capo officina in un’azienda della bergamasca che produce contenitori per ogni tipo di batterie. Azienda grande (linee in Germania, North Carolina, Nebraska, Cina). Negli anni era diventato l’uomo di fiducia del padrone, ora che lui non c’è più è un punto di riferimento dell’azienda. Spesso lo mandano all’estero, quando devono aprire nuove produzioni. Non mandano la dirigenza ma lui, “operaio” che pure parla poco l’inglese, a supervisionare. E l’azienda va benissimo, investe molto.

E c’era tra loro anche un giovane sacerdote, responsabile della pastorale giovanile del vicino oratorio, uomo di grande umanità e tipico pastore che conosce l'”odore delle sue pecore”, per usare un’espressione del papa, il prete con cui parlare nelle assolate e solitarie domeniche in città come cantava il primo Celentano.

A Monza, allo stadio, lungo la strada: queste persone hanno condiviso l’attesa di quello che il papa era venuto a dire, così come quotidianamente si trovano a condividere le loro giornate, a raccontare quello che capita loro, a discutere dei propri casi, a consigliarsi, ad aiutarsi. Persone che non ritengono che occuparsi solo degli affari propri e isolarsi li faccia stare meglio. Si ritrovano al bar senza pensare di “spaccare il mondo”, ma senza essere delusi o cinici come nella canzone di Gino Paoli. Questo gruppo di persone è, insomma, un pezzo di popolo. E se in un momento di “stanca” nella partecipazione civile, la gente sta prendendo l’iniziativa per creare ambiti relazionali, momenti in cui ci si guardi in faccia, ci si confronti, ci si aiuti a capire, questa è una buona notizia.

Dialogare, condividere, ragionare è quello che infondo permette di riscoprire se stessi e gli altri. E’ il succo della democrazia e ciò che si pone in antitesi alla ricerca dell’uomo forte come soluzione dei problemi.

Servono ambiti che colmino un vuoto che si è creato nella società italiana, quello lasciato da ciò che un tempo erano i circoli dei partiti, Acli, sindacati, parrocchie, associazioni, dove le persone si trovavano a discutere, a giocare a carte, a bocce, a dar vita alle comunità di quartiere, dove ci si preoccupava del bene comune “minuto”, ma reale. Luoghi abitati  da chi lavora e resiste, ma non rinuncia a guardarsi in faccia e continua così a creare un tessuto sociale. Sono i luoghi di quella che Jannacci chiamava “la mia gente” o quella dei bar cantati da Gaber. Gente che non ha bisogno di vedere il calciatore o la rock star di turno per dimenticare il suo tran tran: ha bisogno di segni, di gesti, di amici che la aiuti a vivere per un ideale umano, qualunque esso sia.

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