Manchester, povero ma con l’anima

Si può giudicare il senso della vita o della morte di una persona? La strage di bambini a Manchester andrebbe invece accolta nel silenzio. Editoriale di GIORGIO VITTADINI

“Ho tolto chiodi da volti e corpi di bambini. Sono povero ma ho un’anima”. Così ha spiegato il suo gesto un senza tetto di Manchester che ha prestato soccorso dopo l’orrenda strage di lunedì scorso. Lui era lì, non si è sottratto alle urla, allo shock, alla follia. E dopo il suo racconto, era come se tutto il mondo si fosse sentito lì con lui.

Una tragedia che ha passato il segno: ragazzini innocenti, riuniti insieme dalla musica, da sogni e speranze tutte in divenire. Georgina, John, Saffie-Rose, Olivia, Liam, Chloe: abbiamo imparato i loro nomi, insieme a quelli dei tanti dispersi. Bambini e adolescenti stroncati o per sempre traumatizzati, perché la ferita in chi è sopravvissuto rimarrà sempre, in un modo o nell’altro, nelle loro vite. 

Si dicono e si diranno tante parole su quanto successo, è inevitabile quando la vita “ti prende alla gola”. Eppure nessuna parola, nessun pensiero potrà far quadrare alcun cerchio. E per questo il silenzio di fronte a questi fatti appare forse la posizione più umana. Standoci, partecipando alla sofferenza, senza scappare.

“Cosa vanno a fare ai concerti?”, ha chiesto sospettosa una “pia-donna” a un amico che le parlava del suo dolore per quanto accaduto. Ci sono molti modi per scappare da qualcosa che è insopportabile. Ad esempio, come ha fatto la pia-donna, immaginando una indiretta responsabilità dei ragazzini e delle loro famiglie per aver voluto prendere parte, non si sa bene, se a una manifestazione di consumismo, di edonismo, di perdizione. E’ come se non fossero andati incontro alla morte a causa dell’Isis, ma a causa di un altro male, quello che i bambini di Manchester non sarebbero stati educati a contrastare: il male del mondo, per qualche motivo identificato in un concerto pop.

Avevamo già visto questa reazione in occasione della strage al Bataclan di Parigi. Già allora qualcuno aveva spostato il muro della divisione: invece che separare i carnefici dagli spettatori del concerto, divideva le vittime da coloro che le giudicavano per le loro scelte di vita. Come se ci fossero circostanze che, a priori, possano escludere esperienze di vita significative. Come se ci fosse un altro mondo, e non quello reale, in cui muovere i passi della nostra ricerca di senso. E il mondo è fatto anche di musica, di svago, di divertimento. Ma sopratutto come se si potesse giudicare il senso di una vita e di una morte. No, siamo troppo piccoli. A noi è dato di starci e gridare al nostro Dio di non farci perdere nel nulla del non senso.

E poi, se quello in cui credo va difeso dietro a muri, o peggio, usato per affermare una distanza e una superiorità, non vale un po’ poco? Infine, se cominciamo a distinguere i morti e i vivi in base a quanto sono vicini alle nostre credenze, dove va a finire il valore della nostra civiltà? 

Un essere umano vale “più di tutto l’universo” e basta. “Non avrete il mio odio” scriveva Antoine Leiris dopo aver perso la moglie al Bataclan. Speriamo che i bambini morti a Manchester, almeno, non abbiano i nostri muri.

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