Al voto senza idee in economia

Taglia-debito, patrimoniale e politica dei redditi, Jobs Act, politica industriale, riassetto bancario: la campagna elettorale inizia vuota di programmi economici. GIANNI CREDIT  

Durante il dibattito televisivo che ha preceduto le recenti primarie del Pd, ai tre candidati è stato chiesto di esprimersi sull’ipotesi di imposizione patrimoniale. “In questo momento escludo sia una soluzione” ha sorvolato Matteo Renzi, premier fra il 2014 e il 2016 e al momento candidato premier Pd al prossimo voto politico. “Favorevole” si è detto Vittorio Emiliano, ma riguardo alla copertura della spesa corrente: non al taglio del debito pubblico fuori controllo. Più ideologico il ministro Andrea Orlando, che “pescherebbe” – ha sottolineato – in quel 25% di ricchezza nazionale detenuto dall’1% dei contribuenti. Idem sulla web tax: sì convinto di Emiliano, “nì” da parte di Orlando, “sì, ma” da parte di Renzi abile nel buttare la palla in tribuna a Bruxelles. Solo bisticci sul dissesto Alitalia e sugli 80 euro.

Ragionamenti articolati e definiti – se non vere “piattaforme” elettorali di politica economica – dai vertici Pd non ne sono giunti: ed è la forza politica che ha governato il paese nell’ultimo quinquennio. Il partito che aveva promesso ripresa e avrebbe dovuto stabilizzare strutturalmente il debito pubblico e invece è ora atterrito da una legge di stabilità 2018 “lacrime e sangue”.  Lo stesso “Pd-movimento” è parso sempre affascinato dall’economia digitale, ma non è poi mai riuscito a farne una leva anti-disoccupazione giovanile e ora cerca qualche una tantum dai giganti della Silicon Valley. E il medesimo centro-sinistra che aveva esordito in veste liberal alla fine sta salvando Alitalia con soldi pubblici e blocca le privatizzazioni di Poste e Fs per non dispiacere ai sindacati.

Il Pd ha la “politica dei redditi” e la “giustizia sociale” nel suo dna storico, ma oltre gli 80 euro e i controversi 500 euro del bonus-cultura non è riuscito ad andare: per non parlare della falsa partenza dell’Ape in campo previdenziale. Il “reddito di cittadinanza” è divenuto nel frattempo un cavallo di battaglia del programma elettorale di M5S: ma è chiaramente irrealizzabile, se non (forse) nello scenario di uscita dall’euro (brandito peraltro a giorni alterni: non solo dai grillini ma anche da Silvio Berlusconi nella versione “doppia valuta”). E se per Beppe Grillo la grande crisi bancaria è inesauribile benzina polemica ed elettorale, la Lega – collettore sociale di imprenditoria diffusa – chiede a gran voce il salvataggio statale delle privatissime Popolari del Nordest: non diversamente, peraltro, da quanto è necessario per la più politica delle grandi banche, il Montepaschi da sempre targato centrosinistra.

Dopo l’ultima guerriglia (tutta politica) sui voucher, chi può dire oggi con quali idee di politica del lavoro i contendenti elettorali (a cominciare dai Cinque stelle) chiederanno il voto al 40% di giovani disoccupati? Emmanuel Macron, vincente alle presidenziali, si presenterà ora alle legislative francesi ispirato da quel Jobs Act che in Italia sembra invece diventato figlio di nessuno. Forse il solo ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, ha posto un paio di punti fermi: conferma strategica di Industria 4.0 per la modernizzazione tecnologica del manufacturing Made in Italy e nuove norme anti-scalata estera sulle grandi aziende italiane (in realtà norme utili a negoziare grandi alleanze internazionali, come quella che ha appena visto Fincantieri imporsi in Francia). Ma Calenda .- superstite della stagione di Mario Monti – non sembra al momento un protagonista in una campagna elettorale drammaticamente priva di contenuti economici che non siano i vari “muro contro muro” a Bruxelles.

Non può certo stupire, in questa cornice che il nome di Mario Draghi cominci a ricorrere nel toto-premier: che si voti in autunno o all’estremo limite della scadenza naturale della legislatura, fra quasi un anno. E assai verosimile che il presidente della Bce, a Palazzo Chigi alla guida di un esecutivo di coalizione, premerebbe a tavoletta sul Jobs Act, accelererebbe le privatizzazioni e l’uso del patrimonio dello Stato per tagliare il debito, si sforzerebbe di tagliare la spesa improduttiva per tradurla in incentivi di politica industriale pro-occupazione e pro-Made in Italy. E in cambio dell’europeismo saldo di chi ha avuto in mano il timone dell’euro, Draghi porterebbe in dote una credibilità negoziale presso l’Europa che al momento nessun leader italiano sembra avere e neppure volersi conquistare. Forse per questo latitano le idee. Ma se qualcuno ne ha, sarebbe bene le tirasse fuori ora.

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