La missione dei cristiani di Aleppo

Aleppo è una città ancora alle prese con le ferite lasciate dalla distruzione e dalle armi. Ma c'è chi sa di avere un ruolo importante. Ce ne parla FERNANDO DE HARO

Lo scalpellino di Aleppo è un uomo meticoloso. Non sono ancora le nove del mattino, fa i segni su una grossa pietra bianca e poi la intaglia con cura. Sta preparando le pietre che serviranno a riparare la cattedrale melchita, rimasta senza copertura per via delle bombe. La cattedrale melchita, quella armena e quella maronita sono vicine nella piccola piazza Farhat, dove comincia, o cominciava, la vecchia Aleppo. Durante le feste nella piazza non c’è spazio nemmeno per uno spillo. Domenica scorsa non c’era però nessuno.

Quando lo scalpellino spegne i suoi apparecchi, nel silenzio si odono le tortore di Aleppo, che si posano sulle pietre cadute, sulle mura crollate. Si sentono tortore volare e, ogni tanto, le bombe che ancora l’esercito di Assad lancia contro gli jihadisti dislocati a ovest della città. (“Non è niente – ti dicono gli amici, quando fai un’espressione preoccupata -, è solo per ricordare ai ribelli che l’esercito controlla la città”).

“Vedere com’è ridotta la vecchia Aleppo fa male al cuore”, mi ha detto una delle persone con cui ho parlato in questi giorni. E ha ragione. Non si poteva immaginare che le parole false, l’ideologia, che pare un gioco, fossero capaci di seminare tanta distruzione. Fino a quando non la si vede. E qui oltre le pietre – pietre nobili, strade strette, un tesoro secolare che, nonostante sia stato praticamente ridotto in macerie, mantiene la sua bellezza -, c’è un danno per le madri, le mogli, i figli, un danno di quelli che non si vedono: è come un oceano di dolore immenso e silenzioso. Un oceano che si riversa in lacrime quando si entra nelle case degli abitanti di Aleppo e si ascolta. 

Non c’è chiesa dove non si celebri un funerale. La bella Aleppo, la città corteggiata dai crociati, da cui nascevano le più belle principesse, ora ha una popolazione decimata. Tutti i Millennials dovrebbero fare un giro nella zona est di Aleppo, per le sue strade ridotte in macerie, tra gli edifici nudi, tra i ricordi vividi dell’inferno che c’è stato qui negli ultimi due anni. Tutti dovrebbero camminare per le strade di Aleppo per rimanere almeno un secondo dominati dal silenzio attonito che travolge nel vedere le conseguenze delle ideologie. Per abbattere per un momento questa testarda banalità in cui viviamo. Dietro ogni pietra che è fuori posto c’è una storia, un dramma.

Aleppo è una città invivibile. Ad Aleppo ovest non c’è sempre l’elettricità, si sente il rumore dei generatori, senza ascensori, con grandi ristoranti in cui si serve solo caffè. A volte si ha la sensazione che solo i negozi di scarpe e le gelaterie abbiano merce da vedere. In alcuni quartieri l’acqua corrente c’è solamente due volte a settimana. E la maggior parte delle famiglie non può permettersi il costo di un generatore per far andare una lavatrice.

“Abbiamo voluto rispondere a ogni bomba, a ogni gesto di odio, con un gesto d’amore”, mi spiega padre Ibrahim, il parroco dei latini. “Con un gesto d’amore che non fosse solo spirituale. Quando ci mancava l’acqua perché gli jihadisti ce l’avevano tolta, abbiamo aperto il nostro pozzo, quando è mancata la luce, abbiamo acquistato attrezzature per chi non l’aveva”. Alla messa delle undici, la parrocchia di Ibrahim è traboccante. In realtà è traboccante in qualsiasi momento della giornata. “Nei momenti più crudi della guerra sarebbero potuti andar via tutti i cristiani dalla città, erano solo 40.000. Ma la nostra vocazione è qui”, evidenzia. “La nostra missione qui – aggiunge monsignor Chahda, vescovo dei cattolici siriani – è mostrare che l’amore è possibile. Ce lo dicono gli amici musulmani, ci dicono che hanno bisogno di noi, perché senza di noi l’Islam non conoscerebbe l’amore”.

“I cristiani con i soldi se ne sono andati – spiega il vicario apostolico Abou Khazen, con un sorriso di accoglienza -. Qui è rimasto solo un resto di Israele. Ma non bisogna preoccuparsi. Il resto di Israele è sempre stato quello che ha cambiato la storia”. Un resto di Israele nel bel mezzo di una delle ideologie più totalitarie della storia, nel mezzo di un gioco tra tutte le potenze mondiali scatenate con le loro pretese su questa terra.

È chiaro che l’agenda dei rifugiati è ormai datata. Ora è urgente firmare una pace realista, senza massimalismi democratici, garantire la sicurezza perché alla Siria non succeda quello che è accaduto in Iraq dopo il 2003 e lanciare un Piano Marshall. Per far sì che torni il più alto numero di coloro che sono dovuti partire. La scalpellino di Aleppo continua il suo lavoro perché il resto di Israele abbia un tetto. Perché le tortore abbiano compagnia.

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