Bisogna che il cuore si innamori

Una cappella che espone tutti i simboli religiosi immaginabili e anche la bandiera LGBT. Peccato che dentro non entri nessuno. RIRO MANISCALCO e la perdita di religiosità

NEW YORK — Nel campus universitario dove da ormai 14 anni trascorro le mie (intense!) estati di lavoro, c’è una cappella “interfaith”. Francamente non so come si dica in italiano (“multi-fede”, “inter-religiosa”…), ma credo che ormai ne abbiate anche voi e quindi abbiate capito.

Non è una novità, ne ho viste tante, ma questa se ne sta proprio al piano terra dell’edificio dove c’è l’ufficio mio, così, volente o nolente, omne die ci passo a fianco. Non posso evitare di farci caso e non posso evitare che ogni volta qualcosa mi frulli in testa. 

Fino a tre o quattro anni fa era una cappella cristiana, uno degli ultimi segni visibili del retaggio protestante di questo College. Poi qualcuno pensò che una copia del Corano ed una stella di David avrebbero potuto tener compagnia al crocifisso. Monoteismo pluralistico. Quest’anno al mio ritorno sulla scena ho trovato “l’evoluzione della specie”. Tanto per cominciare sul davanzale dell’anticamera fa bella mostra di sé una parata di divinità e simboli più o meno sacri. Poi c’è la cappella vera e propria, trasformata in una saletta da conferenze, tirata a lucido e tuttavia misera con le sue sedie, un tavolo ed una sedia dietro al tavolo non si sa bene per chi. 

Pareti completamente spoglie se non per delle scritte in arabo accompagnate da doverosa traduzione in lingua inglese: “siete benvenuti”, “siamo tutti fratelli”, eccetera. Il davanzale dell’anticamera è certamente più vivace della cappella perché Vishnu, Brahma, Shiva (ed anche Buddha) portano una bella nota di colore. Per non dire di quell’obbrobrio di maschera con i colori arcobaleno, piazzata li in caso qualcuno volesse mettersi a venerare l’omosessualità. Ma la cosa che mi colpisce di più, sacri o profani che siano quei simboli, è che ci sono più divinità sul davanzale che credenti nella cappella. Nonostante sia aperta 24 ore su 24, in queste settimane non ho visto una — dico “una” — sola persona entrare in quella tomba senza volto che ci si ostina a chiamare “chapel”.

In anticamera ci sono tutti gli dei possibili ed immaginabili, mancano solo i fedeli. Ma ci sono i fedeli? Esistono?

Proprio questa mattina, costeggiando anticamera e cappella (invariabilmente ed inesorabilmente vuoti), mi è tornato alla mente un episodio di quando, giovane teenager, avevo smesso di andare a Messa. Un frate che mi conosceva, un Servo di Maria, uomo bravo ed intelligente, avendo notato la cosa mi aveva avvicinato e detto: “Senti, perché non ci sediamo io e te, cosi posso spiegarti e tu capire l’immenso valore e bellezza di ogni singolo gesto ed ogni singola parola della Santa Messa…”. “Perché non mi interessa” fu la mia pronta, lapidaria e sincera risposta.

Nessuno di quei giovani universitari che studiano qui, nessuno dei ragazzi che lavorano con me, nessuno dei teenager che ospitiamo entra in quella stanza. Perché? Perché non gli interessa.

Perché dovrebbe? Un Mistero senza volto è un nulla, una casa senza padrone è vuota.

In America forse più che altrove stiamo patendo un’esperienza di profonda divisione, fuori e dentro di noi. Non è che mettendoci tutti ordinatamente sul davanzale, come quei simboli nell’anticamera, impariamo qualcosa.

Non si finisce mai di imparare. Se poi non si comincia neanche…

Bisogna che succeda qualcosa, bisogna che il cuore si intenerisca e si innamori, bisogna che si incontri qualcuno, e bisogna che questa dinamica non si fermi mai così che ogni stanza dove mettiamo piede diventi una casa viva. Senza bisogno di apparecchiare il davanzale.

Omne die.

Se non lavoriamo per questo, cosa lavoriamo a fare?

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