Aiutare chi fa
Di fronte a quanto accade nel mondo ci si può fermare a voltare indietro oppure scegliere di guardare avanti e valorizzare quello che va e funziona. GIORGIO VITTADINI

Ancora sotto l’eco dei fatti di Barcellona abbiamo iniziato il Meeting, che per questo diventa un’occasione ancora più preziosa per dire che la vita non può che dominare sulla morte, che il desiderio di bene, di bellezza, di giustizia, di verità può e deve vincere. Può vincere però nella misura in cui ci chiediamo cosa fa sì che il bene accada, quando accade.
Di solito la realtà sociale viene raccontata con dati “medi”: è un numero medio, calcolato sommando quelli espressi da un universo, ad esprimere il reddito, l’occupazione, l’aspettativa di vita, e così via. Eppure, si può dire che il modo più adeguato di leggere la realtà italiana è la varianza, perché è quella che legge le differenze, e così mette in luce anche quei fenomeni che accadendo segnano un punto di novità. Per andare avanti, infatti, è a questi che bisogna guardare, a cui va data ragione. I piagnistei o le invettive sono comprensibili, ma non possono darci suggerimenti per una svolta. Come coloro che in autostrada rallentano per guardare gli incidenti nell’altra corsia – gli anglosassoni li chiamano “rubbernecking” – voltarsi indietro e rimpiangere ciò che non c’è più fa solo perdere tempo.
Ad esempio, di fronte a uno dei principali problemi strutturali, quello demografico, non è secondario fermarsi e chiedersi: perché tante famiglie fanno figli anche se sono in una condizione più insicura e più povera di altre che invece rinunciano a farli? Oppure, a riguardo dell’immigrazione (oltre a un minimo realismo che porterebbe a pensare che una buona integrazione è un’opportunità), bisognerebbe chiedersi: come nascono e si sviluppano spazi di convivenza pacifica, se non di amicizia e condivisione di progetti di solidarietà, come è avvenuto con gli amici della Casa della Cultura musulmana a Milano o a Portofranco? Esempi come questi, che sembrano marginali, prima di tutto dettano un metodo, ma poi devono far riflettere su come possiamo lavorare per diffonderli.
La stessa domanda possiamo porcela a riguardo del sistema educativo. Conosciamo bene i suoi problemi, ma la riflessione più importante, anche in questo caso, riguarda cosa muove i tanti insegnanti che, pur pagati poco, si dedicano ai ragazzi con tanta competenza e passione, offrendo loro una formazione che i rende tanto apprezzati nel mondo.
Ci sono regioni, comuni e burocrazie centrali inefficienti e “sprecone”: perché ci sono però tanti funzionari pubblici e politici che non si arrendono e continuano a lavorare per il bene comune? Anche in ambito imprenditoriale e nel mondo del lavoro il ragionamento è analogo: non è tutto uguale, e quindi, tirando le somme finale, tutto negativo. Ci sono imprese che esportano e occupano, essendo capaci di innovazione e di reazione positiva al cambiamento. E molte anche quelle che al centro dell’innovazione mettono un nuovo modello di rapporto tra datori di lavoro e dipendenti, basato sulla valorizzazione della personalità a tutto tondo del lavoratore e non sullo sfruttamento. Sono poche o tante? Non è questo il punto. La cosa importante è che ci sono e sono competitive.
In modo speculare, in un contesto in cui la disoccupazione è ancora troppo alta, ci sono lavoratori che mettono tutto se stessi in quel che fanno, anche se non è ciò che avevano sognato, e per questo trovano opportunità che altri non vedono e sono pronti ad imparare e progredire, con spirito di sacrificio, pazienza, capacità di adattamento, flessibilità (come è testimoniato nella mostra “Ognuno al suo lavoro”).
Tra le eredità più importanti che ci hanno lasciato i nostri padri – per citare il titolo del Meeting – c’è stata la capacità di risollevare con il loro lavoro un Paese vinto, distrutto, diviso, alla fame. Una svolta può esserci se si inizierà a sostenere chi fa, perché questo potrà creare un “contagio” positivo: le famiglie che fanno figli, chi incrementa educazione e capitale umano, le imprese che investono, innovano, esportano, le imprese sociali impegnate nei più diversi bisogni della popolazione.
Ma soprattutto inizieremo a cambiare qualcosa se ci renderemo conto che la crisi dipende innanzitutto da cuori che hanno ridotto il loro desiderio di vivere e migliorare. E per questo la riscossa può esserci solo aiutandoci a non demordere, a esserci con tutto noi stessi.
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