Libertà di educazione, apertura alla ragione

Aprirsi alla novità e verificare a chi danno ragione i fatti significa rinunciare alla propria tradizione? Tutt'altro, come ha insegnato don Giussani seguendo l'esperienza. GIORGIO VITTADINI

Nello splendido libro di Marco Bersanelli, Il grande spettacolo del cielo, è raccontata la storia dei rapporti fra Albert Einstein, scopritore della teoria della relatività generale, e George Lemaître, prete e studioso altrettanto importante, anche se meno famoso fuori dall’ambito degli specialisti. Lemaître avanzò tre ipotesi sulla struttura del cosmo: la sua origine con il big bang, la sua espansione, e la cosiddetta costante cosmologica, oggi accettate come vere da tutta la comunità scientifica. Il fatto è che Einstein, non solo all’inizio rifiutò tutte e tre le ipotesi, ma trattò Lemaître con sufficienza. Nel corso degli anni però si convinse della prima tesi, e divenne amico di Lemaître, benché non avesse mai accettato le altre due.

Persino Einstein, uomo di ampie vedute, oltre che di grande umanità, non è stato immune dal rischio di cadere in chiusure pregiudizievoli. Sono situazioni non rare nel mondo scientifico: anche Pasteur fu ferocemente contestato da scienziati del suo tempo che avevano paura di perdere i loro privilegi se le teorie che sostenevano fossero state confutate. Di fronte a nuove proposte, uno scienziato non può essere preoccupato di difendere la sua “patria”, ma deve essere in qualche misura “apolide”: aprirsi alla novità e verificare a chi danno ragione i fatti. Ciò non significa rinunciare alla propria tradizione, ma sottoporla a critica senza risparmiarsi nulla per vedere se vale nel presente. E’ questo l’approccio realista, in ambito educativo, suggerito in molti suoi libri da don Luigi Giussani contro due opposti estremismi ideologici: quello empirista-relativista, che non ha valori e principi, e quello idealista, che difende a priori la propria convinzione contro l’evidenza (viene in mente il Don Ferrante che non credendo alla peste ne morì).

Scrive Giussani ne Il rischio educativo: “La nostra insistenza è sull’educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: ‘È vero’, ‘Non è vero’, ‘Dubito'”.

Un simile approccio non mette in discussione il proprio credo o i propri ideali: non si tratta di mettere in discussione né dogmi né appartenenze né verità morali, ma di vedere come rispetto al mondo dello scibile, sempre in movimento, mai uguale a se stesso, si possa tenere conto di tutto. Non si può giudicare un’affermazione estrapolandola dal contesto a cui si riferisce, se non si vuole essere scorretti o addirittura faziosi.

Un tipico ambiente in cui questo avviene è il mondo della scuola, libera o statale che sia, dove docenti e studenti sono chiamati a imparare aspetti diversi della realtà. Premesso che nessuno misconosce l’importanza di avere e difendere una posizione ideale, proviamo a esemplificare cosa vuol dire, da una parte, una messa in discussione critica della propria tradizione nel dialogo con l’altro e, dall’altra una posizione di chiusura. Partiamo proprio dalla scienza: la Chiesa, nel corso dei secoli, si è accorta come legare la concezione del mondo a una determinata visione cosmologica fosse un grave errore e proprio un dialogo tra Pio XII e Lemaître portò il pontefice alla formulazione secondo cui Dio “crea, conserva, governa, tutto ciò che esiste, oggi come all’alba della creazione”. Una posizione che apre alla libera ricerca intesa come complementare alla fede e non in opposizione: quanto ha guadagnato la Chiesa ad ascoltare il contributo di chi prima riteneva nemico!

E ciò vale anche per la rilettura storica: pensiamo alla richiesta di perdono di Giovanni Paolo II rispetto ai tentativi egemonici della Chiesa nel corso dei secoli (le guerre di religione, gli scismi, le persecuzioni contro gli ebrei, il sostegno al colonialismo, alla discriminazione etnica e sessuale, la quiescenza contro le ingiustizie sociali).

L’identità della Chiesa si è manifestata più grande e libera in questa capacità di cambiare idea, a differenza di chi, partendo da altre convinzioni, non ha avuto il coraggio di mettere in discussione ad esempio stalinismo o maoismo dopo torture e uccisioni di milioni di dissidenti.  

Ascoltare l’altro può portare a un incontro fecondo per entrambe le parti, come fecero il presidente Giorgio Napolitano e Benedetto XVI sul Risorgimento, segnato, ancora dopo centocinquanta anni, dalla breccia di Porta Pia e dal Non expedit. Il papa ricordò il contributo al Risorgimento di cattolici come Alessandro Manzoni e Massimo D’Azeglio, e il presidente confutò il dogma liberal-massonico secondo cui i cattolici non avevano contribuito alla costruzione della nazione. Su queste basi nacque la mostra del Meeting “Centocinquanta anni di sussidiarietà”, che mise in luce il contributo anche del movimento cattolico al progresso della nazione unita, anche in politica, per esempio con il tentativo di don Sturzo alle amministrative di Caltagirone in pieno Non expedit: una vera revisione storica rispetto a quello che si insegna ancor oggi in molte scuole. Si è nell’errore se si spera che non esistano professori “muri”, ma che siano “materassi”, cioè dotati di una identità così forte da essere flessibile e aperta alla verità di altri nell’approccio alle diverse conoscenze? Perché questo dovrebbe significare contraddire i fondamenti dei propri ideali?

Non è forse vero che 70 anni fa autori come Kafka, Leopardi, Pascoli erano quasi all’indice nelle scuole cattoliche e che un approccio nuovo e vero all’esperienza cristiana, come quello di don Giussani, ne ha fatto scoprire il valore per tutti? Non sarebbe meglio che professori che ancora nel 2017 snobbano (o disprezzano) Giovannino Guareschi, superino la loro grigia ideologia di sinistra e ne riconoscano il valore, come ha fatto Michele Serra, che non è certo un clericale? Proprio chi ha una identità e una tradizione non teme che sia messo in discussione quello in cui crede: perciò è un bene se nella scuola ci si apre alla critica e al dialogo vero, vagliando ogni cosa e trattenendone il valore.

C’è da scoprire un modo nuovo di insegnare, quello adottato da Martina Saltamacchia che si è trovata ad insegnare le Crociate all’università del Nebraska: pregiudizio massimo, interesse zero. Invece di sciorinare le sue verità ha proposto agli studenti di immedesimarsi nei diversi personaggi storici (es. Riccardo Cuor di Leone, Saladino, il papa) leggendo, vedendo filmati e poi rappresentandoli liberamente secondo la loro interpretazione critica. La classe si è trasformata, negli studenti è esploso l’interesse, la discussione e il desiderio di approfondimento non finivano più, ed è emersa una interpretazione delle crociate a tutto tondo non demolente come di solito accade. In tre anni il corso è diventato così interessante per tutti che la Saltamacchia ha vinto il premio per il miglior esempio di didattica di tutta l’università: non vorremmo che scuola e università fossero ovunque così?

Chi si batte da decenni per la libertà di educazione capisce la necessità di quel paziente dialogo basato sull’uso della ragione, all’interno del quale può accadere — come è capitato al Meeting — che l’ex ministro Berlinguer, uomo di sinistra, liquidi il “dogma” della scuola di Stato dichiarando che la parità scolastica è un dettato costituzionale.

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