Caporetto, pietà e preghiera

- Pierluigi Colognesi

Manca ancora un mese, ma già si odono i primi tambureggiamenti per rimarcare il centenario della data più importante della prima guerra mondiale vista dall’Italia. PIGI COLOGNESI

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Sacrario militare di Oslavia (Foto da Wikipedia)

Manca ancora un mese, ma già si odono i primi tambureggiamenti per rimarcare il centenario della data più importante (dopo quella della vittoria, ovviamente) della prima guerra mondiale vista dall’Italia. Lugubri tamburi e non fanfare perché si tratta di ricordare la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) e la tumultuosa ritirata che ha fatto indietreggiare la linea del fronte dall’Isonzo al Piave; basta guadare su una cartina per rendersi conto dell’enormità del territorio perso. Del resto incommensurabile rispetto alle perdite umane che le ripetute battaglie avevano provocato tra le linee avanzate nei primi due anni di guerra. Caporetto è stato un crollo così devastante che il nome proprio della cittadina ora slovena è diventato nella nostra lingua un nome comune per indicare fallimento, pesante sconfitta, disfatta quasi irreparabile. Già da ora sui giornali si trovano dibattiti tra gli storici in merito alle responsabilità dei comandanti dell’esercito, collane di dvd per illustrare gli avvenimenti bellici, riproposizione di racconti dal vivo della ritirata.

Ho letto anche un reportage sui luoghi delle battaglie e sui monumenti (spesso in balia di colpevole trascuratezza) che conservano le spoglie dei caduti. La scalinata che sale al sacrario di Oslavia — che ho visitato lo scorso agosto con alcuni amici — è effettivamente un po’ sconnessa, ma l’edificio — tre enormi cilindri di pietra chiara che spiccano contro il cielo perfettamente limpido — è tutto sommato ben curato. La cosa che mi fa più impressione è la scritta all’ingresso; per fortuna niente retorica patriottica (sebbene il sacrario sia stato costruito in tarda epoca fascista), niente tentativo di commuovere sentimentalmente: soltanto il puro, crudo, nudo dato: Qui sono sepolti 57mila soldati. Ne sono stordito; provate ad immaginare 57mila uomini messi in fila davanti a voi: sono una moltitudine sterminata; provate a pensare che ognuno di loro aveva al paese un padre e una madre che trepidavano per lui, magari una fidanzata, una moglie, addirittura dei bambini. 57mila: una città. Di morti.

Entriamo nel grande spazio circolare: è illuminato dall’alto e nel mezzo una croce nera contrasta con le pareti ricoperte di lapidi chiare: su ognuna nome cognome e grado militare. Tutto attorno a quest’aula centrale c’è un corridoio illuminato artificialmente, anche le sue due pareti sono ricoperte di lapidi con nomi; così come la cripta sottostante e le aule coi corridoi dei due cilindri minori (in internet si trovano dei video amatoriali che danno un’idea di questi spazi). Al centro di ognuna delle due aule più piccole c’è una grande pietra tombale grigia, su cui sta scritto che lì sono sepolti 12mila soldati che non sono stati riconosciuti: 24mila militi ignoti. I nomi scritti in ordine alfabetico sulle pareti di tutto il sacrario sono dunque 33mila.

Mentre la visita prosegue in un silenzio sperduto, si fa largo in me un senso di inquietudine. Quella grandiosità rotonda senza punti di riferimento, quel susseguirsi di lapidi senza un’immagine, senza un fiore, senza un cero, quei corridoi tutti uguali mi appaiono come un labirinto, simile a quelli che a volte compaiono nei sogni e dai quali non si riesce in nessun modo ad uscire. Ma poi i nomi, quei nomi dietro ai quali sta un viso ed una storia (anche se sconosciuti), mi svegliano dall’incubo; quei nomi chiedono la pietà di una preghiera, di un ricordo non generico; chiedono la promessa di non far più la guerra.

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