Centri commerciali, se c’è chi dice no

L'alt della Provincia di Trento ai centri commerciali fa discutere: un format che sembrava egenone nella post-modernità economica viene rimesso in discussione. GIANNI CREDIT

Come qualche importante compagnia aerea low cost, i grandi centri commerciali si ritrovano improvvisamente in discussione. Si scoprono improvvisamente poco popolari proprio quando, probabilmente, davano per acquisita un’affermazione definitiva nel terziario commerciale, sul piano economico e sul quello sociale. La Provincia di Trento – che ha deciso di bloccare la costruzione di nuovi outlet – appare sulla carta un laboratorio di post-modernità,  omogeneo a molti incubatori di “civiltà dei centri commerciali”. Grazie anche a un’autonomia finanziaria molto pronunciata, Trento è diventata un’academy-town riconosciuta. A Rovereto è sorto il Mart, un museo che non a torto si propone come “Guggenheim italiano”. Il brut millesimato prodotto dai vigneti ben visibili dall’autostrada si trova nelle migliori carte dei vini internazionali. E il Festival dell’Economia di inizio giugno richiama da anni a Trento Nobel e banchieri “progressivi” da tutto il mondo.

Da De Gasperi all’istituto di sociologia del ’68, Trento non è mai stata un luogo di conservazione, ma di cambiamento. Eppure questo “spazio-tempo” prende ora le distanze dai centri commerciali, con formale pronuncia politico-istituzionale. Non stupisce che la cosa faccia molto rumore: esattamente come quando un gigante del volo low cost inciampa su una sentenza sindacale e cancella centinaia di voli proprio quando sta più che simbolicamente conquistando un’ex compagnia di bandiera.

Politica che mette le mani sul mercato? Ambientalismo strumentale? Battaglie di retroguardia, venate di populismo? E magari il “colpevole” potrebbe avere i lineamenti del Grande Fratello trentino: un movimento cooperativo di tradizione secolare e di profilo europeo. Costruire “contro-narrazioni” pronte all’uso non è difficile: lo si è visto a proposito del Prosecco, che secondo le solite “università inglesi” sarebbe più o meno veleno (anatema rilanciato perfino da un blasonato programma Rai dopo che il vino-bandiera del Nordest ha superato lo champagne in molti mercati).

Sotto la patina mediatica – dove l’ideologia si piega alla concorrenza senza quartiere – le questioni reali restano. E la Provincia autonoma se le è poste: in Trentino che ci azzeccano i centri commerciali con le Dolomiti? E’ inevitabile, “giusto” che un artigiano del legno finisca per fare il commesso in un centro commerciale, offrendo articoli in legno probabilmente lavorati molto lontano dal Trentino? (Volare a prezzo stracciato può anche suonare bene: ma con i piloti spremuti? Con i voli per gran parte fuori orario? E magari alimentando i profitti di una società basata in uno strano “paradiso fiscale” dentro la Ue).

Dietro e dentro il caso “centri commerciali” sembra comunque agitarsi qualcosa di niente affatto superficiale: la voglia di ridiscutere la condanna a morte neo-liberista per il tradizionale commercio al dettaglio; e un miscela di stanchezza e dubbio sui full time domenicali coatti nelle fortezze del consumo di massa. “Tutto al prezzo più basso”: forse anche perché gli addetti ai punti vendita sono ormai in tutto assimilabili a piazzisti precari da call center. E se qualcuno – a Trento, Italia – volesse (ri)aprire una bottega? Magari per vendere cose fatte da lui. Per guadagnare di più, rischiando e lavorando di più (anche con un incentivo provinciale, perché no?). E per dire: io sono io, non quel centro commerciale. E la domenica vado a sciare con moglie, figli e amici.   

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