Se il Fiscal TrumpAct inquina il voto italiano

La riforma fiscale varata da Donald Trump conferma un primo anno di presidenza "senza direzione". e ora allunga le sue ombre sulla campagna elettorale italiana. GIANNI CREDIT

“L’unico punto fermo è che nel 2018 otto americani su dieci pagheranno meno tasse e solo il 5% ne pagherà di più”: fin qui e non oltre il Washington Post, il giornale della capitale americana, all’indomani del varo del controverso Fiscal TrumpAct. Da Londra il Financial Times ha aggiunto una sola previsione, altrettanto secca: “E’ previsto che la riforma fiscale aumenti di 1,5 trilioni di dollari (1.250 miliardi di euro) il deficit federale degli Stati Uniti”, che a fine 2017 si è riastabilizzato sotto 700 miliardi di dollari.

Nelle sezioni di commento, il Wall Street Journal ha preferito lasciar parlare direttamente un testo enfatico del leader repubblicano Paul Ryan: “Il Tax Cuts and Jobs Act rappresenta il più importante passo avanti negli anni di memoria recente, in direzione della crescita e delle opportunità, offrendo reale sollievo alle famiglie con reddito medio”. Ma pochi isolati più in là, a Manhattan, i giornalisti del New York Times hanno utilizzato il “tassometro” online liberamente messo a disposizione dei lettori per stilare una classifica dei “vincenti e perdenti”. Fra i primi: il presidente Trump e la sua famiglia, i multimiliardari, le grandi corporation, le scuole private più esclusive, l’industria degli alcolici, architetti, avvocati e consulenti fiscali.. Fra i perdenti: tutti coloro che devono ricorrere a forme di assicurazione sanitaria, anziani e disabili, tutti i contribuenti individuali dal 2025 in poi (quando scadranno le deduzioni per le famiglie e diverranno permanenti quelle per le imprese), le famiglie a basso reddito da subito (19 miliardi di dollari di deduzioni tagliate); ma anche proprietari e alti redditi in stati come New York o la California (a maggioranza democratica, ndr), per via di un meccanismo meno favorevole di deduzione delle imposte locali. Non ultimo loser appare l’Ifr, il fisco federale alle prese con una montagna di lavoro nuovo (e tecnicamente oscuro) ma anche con i tagli imposti da Trump alla burocrazia di Washington (e una macchina fiscale in panne colpisce sicuramente molto meno chi può disporre di avvocati e commercialisti di cui sopra)

Al di sotto della retorica-tweet del “giù le tasse” sembra esserci la stessa confusione che ha caratterizzato il primo anno della presidenza Trump su ogni fronte. La riforma fiscale continua a non essere chiara anzitutto negli obiettivi. Per cominciare: la Corporate America non sta attraversando un periodo di bassa congiuntura (ancora nel terzo trimestre il Pil ha viaggiato al +3,2% annualizzato, disoccupazione e inflazione sono basse, Wall Street è sui massimi). La Fed sta iniziando solo ora a ricontenere gli stimoli monetari e i tassi ancora bassi aiutano ancora un deficit federale dimezzato rispetto agli anni dei salvataggi bancari, ma non ancora riassorbito. Non è l’America ammaccata che Ronald Reagan ereditò a fine anni 70: infettata dall’inflazione petrolifera, minacciata dalla concorrenza industriale giapponese, ancora ultra-carica di spesa militare. Perché abbassare ora le tasse alle imprese? Per vendetta-contrappasso al mancato abbattimento del Medicare? Per riconciliarsi con la più atavica tradizione politico-economica repubblicana, allorché si avvicina la verifica elettorale del midterm? Per semplice “ammuina” parlamentare, per tenere a bada il pressing dei media liberal? Di certo Trump sembra essersi scordato di quando, un anno fa, la sera della vittoria, sembrava aver rubacchiato qualche pagina del new deal rooseveltiano, promettendo di “ricostruire strade ed aeroporti”.

Quando Reagan entrò alla Casa Bianca lo smontaggio del Leviatano fiscale e la restituzione al mercato della sua libertà (a vantaggio anche dei lavoratori) era una priorità socio-economica reale assai più che un imperativo ideologico o una scelta di opportunità politica. E i risultati si sono visti: l’industria dell’auto era comunque destinata ad arrugginirsi, mentre i valori economici, tecnologici, socio-educativi, politici in senso lato prodotti dalla Silicon Valley – e quella di oggi semplicemente non esisteva – hanno superato di molte volte i costi dello spegnimento di Detroit. E a proposito di hi-tech californiano: fra le molte non-certezze del Fiscal TrumpAct c’è anche l’impatto prevedibile della nuova tassazione sugli utili dei giganti Overt-The-Top e delle grandi banche d’affari congelati in paradisi fiscali. Da un’America veramente First era lecito attendersi un colpo d’ala: provvedimenti-guida che superassero i populismi punitivi e i nazionalismi tributari (ce ne sono molti anche dietro gli attacchi Ue a Google, Apple & C.) e costruissero un’equità fiscale globale dinamica, quattro o cinque-punto-zero. Nella riforma questo non s’intravvede. ad oggi si coglie qualcosa di simile a un condono, senza profili identificati né sul piano economico-finanziario né su quello politico. C’è qualcosa di simile al ritiro Usa dagli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico: un passo alla fine negativo, di corto respiro, non una mossa dialetticamente attiva, un “nuovo modo” di tassare – correttamente in America e altrove – le multinazionali-leader del ventunesimo secolo.

Se un effetto già evidente la riforma americana sta rivelando, è tuttavia tuttavia fuori dai radar della Casa Bianca o del dibattito pubblico statunitense. Nel confronto pre-elettorale italiano – in mancanza di meglio – il mantra no taxes sta già risuonando nella fresca riverniciatura trumpiana. Non ci sta rinunciando Silvio Berlusconi, memore di slogan vecchi di un quarto di secolo; difficile ne sia insensibile Matteo Renzi, da sempre molto “americano” nell’intonazione e sempre più anti-europeo nella sua polemica anti-rigorista. Meno tasse (per tutti?..), più deficit e debito (per tutti, a cominciare dai contribuenti onesti). In America non sono affatto certi che sia la ricetta giusta per l’America. In Italia i dubbi sono ancora maggiori. Le tasse sono l’ingrediente classico di una campagna elettorale, ma sono finiti i tempi in cui governanti ed elettori potevano giocare nell’urna con le generazioni future. Anzi: presenti, i diciottenni non a caso citati l’altra sera dal presidente Sergio Mattarella come primi destinatari dei suoi auguri per il 2018.

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