Figli dello stesso cielo

Lo sviluppo dipende innanzitutto dalla ricreazione di legami, del desiderio di guardarsi, di condividere la vita e di aiutarsi. Il ruolo di Avsi

In due foto ravvicinate appaiono due giovani uomini che sembrano guardarsi. Hanno entrambi in braccio un bambino e sono seduti sul loro divano di casa. Paiono entrambi sulla trentina e i bambini possono avere 2 o 3 anni al massimo. Gli sguardi dei due protagonisti sono riflessivi, ma aperti, come in attesa. Facendo maggiore attenzione si legge che una foto è stata scattata nel salotto di una famiglia italiana, mentre l’altra in una casa siriana, e sulle immagini campeggia una scritta: “Sotto lo stesso cielo. Osiamo la solidarietà attraverso i confini”. È la nuova campagna di solidarietà che l’Associazione volontari per il servizio internazionale (Avsi) realizza in tutta Italia in questo periodo dell’anno e che a Padova sarà sostenuta dalla Cena di Santa Lucia di questa sera.

Se si supera la reazione difensiva (tante persone nel mondo hanno bisogno, ma dobbiamo occuparci prima dei “nostri”), oppure quella rivendicativa (le grandi potenze mondiali dovrebbero porre rimedio ai bisogni della povera gente), non si può non rimanere colpiti da un fatto molto semplice: quei due uomini, che si assomigliano ma vivono lontani e in condizioni di vita così diverse, si stanno guardando.

D’improvviso può venire in mente che lì, in quello sguardo, c’è la chiave di tutto. Della povertà, della guerra, della solitudine, del bisogno.

I progetti di cooperazione internazionale sono pensati perché le popolazioni povere del mondo possano tornare a “mangiare il pesce” e anche perché “imparino a pescarlo”, secondo un vecchio ma sempre valido slogan. Ma lo fanno innanzitutto ricreando legami, riattivando il desiderio di guardarsi, di capirsi, di condividere la vita e di aiutarsi.

E non c’è dubbio che questo è ciò che più serve anche a noi, che pure viviamo nel benessere. Dietro a tanto nostro disagio infatti c’è solitudine, isolamento, desertificazione dei rapporti e dei legami umani. Al punto da non riuscire, troppo spesso, a sentire più il desiderio di darsi una mano, anche in modo semplice, o addirittura al punto di pensare che si starebbe meglio se si allontanasse dalla nostra vista chi vive nel bisogno.

Ma non c’è bene senza relazioni.

E questo aiuta anche a chiarire dove è l’errore di chi pensa che il problema dei paesi poveri vada affrontato solo con l’aiuto delle grandi organizzazioni internazionali e degli Stati. Infatti, oltre a una cronica pericolosa dipendenza che si crea tra nazioni per debiti impossibili da rimborsare, e oltre all’utilizzo degli aiuti da parte di governanti per armi e corruzione, non si considera che lo sviluppo avviene quanto più cresce consapevolezza e assunzione di responsabilità a tutti i livelli della società. Ma queste dimensioni possono essere educate solo tramite legami personali.

Per questo lo sviluppo non può prescindere da Ong come Avsi. Ricostruire un ospedale in Siria, formando medici e infermieri, insegnare un lavoro per vincere la povertà in Burundi e Kenya, aiutare chi accoglie in Brasile i migranti venezuelani in fuga da una dittatura distruttiva, piuttosto che aiutare in Italia le suorine dell’Assunzione o il centro di aiuto allo studio “Portofranco”, richiede lo stesso tipo di azione: iniziare a guardarsi creando legami.

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