Quel duello fra reddito di cittadinanza e flat tax

Le forze politiche vincenti al voto - M5S e Lega - misurano le ambizioni di governo sul terreno della politica economica. con più incognite che punti fermi. GIANNI CREDIT

L’articolo quasi-unico di Luigi Di Maio: il reddito di cittadinanza. E i “dieci punti” di Matteo Salvini: il primo dei quali – ancora un mese fa – era l’Italia fuori dall’euro, anche se al terzo sparava una “flat tax” di sapore trumpiano. Tre giorni dopo il voto politico, è impossibile non partire dalle promesse elettorali per ipotizzare scenari di politica economica targati M5s o Lega. Con l’avvertenza che una volta scrutinate tutte le schede è il realismo a dettare le mosse possibili a governi possibili: ad esempio a uno sostenuto da una maggioranza M5S-Pd, ballon d’essai gettonatissimo nelle ultime ore; oppure uno a guida centrodestra con forme di appoggio Pd.

I 780 euro al mese per un diciottenne disoccupato restano certamente la cifra politico-economica che ha segnato “Italia18”. Le obiezioni principali, in campagna elettorale, sono state di natura essenzialmente tecnocratica: gli attuali vincoli finanziari dell’eurozona non consentirebbero mai all’Italia fra 16 e 30 miliardi di spesa pubblica addizionale stimata. Su un piano più sostanziale le critiche hanno preso di mira l’effetto-boomerang – antisviluppista e socialmente diseducativo – di un “reddito recapitato a casa a fine mese per posta”. Sia o no la riedizione del vecchio assistenzialismo meridionalista, il reddito di cittadinanza marca comunque uno statalismo di fondo che emerge trasversalmente nei programmi economici pentastellati. Le ipotesi di copertura per il reddito di cittadinanza guardano alle “grandi ricchezze” (imposizione patrimoniale) e alle “compagnie petrolifere” (in concreto sarebbe colpita l’Eni, ormai la più grande azienda italiana, a controllo pubblico). E se l’extra-deficit verrebbe contabilmente coperto in qualche modo, non è invece affatto chiaro come M5s intenderebbe abbattere l’extra-debito italiano: probabilmente all’interno di una negoziazione aggressiva con la Ue, incentrata sulla minaccia di uscita dall’euro.

Sul terreno del contrasto alla disoccupazione – strategico per M5s – è evidente che il ritorno in azione di “centri per l’impiego” pubblici rinnegherebbe la svolta liberalizzatrice del Jobs Act. E sia la richiesta di un soglia salariale minima, sia l’apertura alla reintroduzione dell'”articolo 18″ anti-licenziamenti indicano chiaramente che i grillini devono fare i conti con una forte componente proveniente dalla sinistra “vetero”: contraria a ogni flessibilità contrattuale fra parti sociali. Anche in campo bancario – dove Beppe Grillo ha seminato il movimento una quindicina d’anni fa – l’approccio è coerente e rigido: servono istituti di credito pubblici. Niente fretta, quindi, nel riprivatizzare Mps; va semmai l’evoluzione della Cassa Depositi e Prestiti come “nuova Iri” (ad esempio per sostenere Ilva o Alitalia). A proposito: la parola “privatizzazione” è praticamente sconosciuta a una forza politica che sa di aver mietuto voti fra ferrovieri, postini, dipendenti Pa assortiti.

La “flat tax” è concettualmente e politicamente l’opposto del “reddito di cittadinanza”: è una ricetta classica del riformismo liberista, preoccupato di produrre Pil prima di distribuirlo e fiducioso che a farlo siano essenzialmente gli imprenditori. Tagliare le tasse in concreto significa tagliarle a imprese e investitori, riducendo nel contempo la spesa sociale improduttiva al fine di generare occupazione, “reddito per tutti” e quindi gettito per una fiscalità sostenibile. Il centro-destra italiano ne ha fatto una delle sue fiche elettorali, ma senza determinazione: forse troppo preoccupati – sia Salvini che Silvio Berlusconi – di apparire anti-europei e forse coscienti che non tutto il 37% conquistato dal centro-destra è formato da partite Iva. Molto più trasparentemente pro-business si è mostrato il ministro uscente dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che proprio ieri ha chiesto l’iscrizione al Pd: “Industria 4.0” taglia molte tasse a poche e selezionate imprese, obbligandole a investire e premiando il merito nell’innovazione digitale, nella competitività globale, nell’occupabilità di giovani a formazione avanzata.

La domanda “come Salvini governerebbe l’economia” non è comunque troppo diversa da quella che non ha mai ottenuto risposte compiute durante ogni passaggio al governo del centrodestra berlusconiano. E lo storico sorpasso di Salvini su Berlusconi ripropone in fondo un grande nodo irrisolto. Il Cavaliere – l’imprenditore-premier che ha inviato Mario Monti all’Antitrust Ue e Mario Draghi in Bce – non è mai riuscito a modernizzare e liberalizzare davvero l’Azienda-Italia. E’ stato certamente frenato, negli ultimi 24 anni, anche da una Lega che sembra tuttora lontana dalla fisionomia di un partito “bavarese”, come la mappa elettorale del 4 marzo sembrerebbe invece indicare. Nella Monaco governata dalla Csu, giganti come Allianz e Bmw convivono a rete in migliaia di aziende mittelstand, in sistemi di relazioni sindacali evoluti, con infrastrutture “4.0” nel campo dell’education, della ricerca e della sanità. E’ un mondo con cui la Lombardia o il Veneto reggono agevolmente il confronto: ma è la Milano dell’Expo, è il Nordest che ha vestito e calzato decine di atleti di mezzo mondo medagliati alle ultime Olimpiadi invernali. Non è una “Salvini-land”, in valzer fra Le Pen e Orban e a caccia voti in Calabria: è invece un macro-regione consapevolmente leader nella Ue.

E’ probabile che un governo Salvini non veda la luce: almeno nel 2018. Quel che è certo è che non sarebbe la nomina di Renato Brunetta o di Giancarlo Giorgetti al posto di Piercarlo Padoan a sciogliere d’incanto i tanti rebus di una maturazione finora incompiuta nella capacità di governo dell’economia.

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