Il reddito di cittadinanza e il pifferaio magico

Si parla ancora del reddito di cittadinanza, ma è più importante cercare di affermare l'importanza del lavoro come espressione della propria dignità e crescita. GIORGIO VITTADINI

Con piglio provocatorio, ma forse neanche tanto, qualcuno si è di recente chiesto se la schiavitù non sia un’opzione percorribile nella società moderna. Sì, proprio la schiavitù: questa è la parola usata. Non forme di sfruttamento, peraltro abbondantemente accettate, ma proprio quello stato di possesso di un essere umano da parte di un altro essere umano che l’avvento del Cristianesimo ha stigmatizzato come disumano. Il ragionamento è: visto che disoccupazione, precarietà, incertezza, mancanza di libertà, super-lavoro sempre meno pagato sono già una realtà di fatto, perché non pensare di sancire uno status di assoluta sudditanza dei lavoratori nei confronti dell’impresa? D’altra parte, si fa notare, persino gli schiavi dell’antica Roma godevano di alcuni “asset” che potrebbero allettare anche molti poveri precari di oggi: vitto, alloggio, cure mediche, a volte anche formazione.

Al di là della provocazione, complice anche la paura che la tecnologia possa scalzare l’uomo dall’organizzazione del lavoro, sembra diventare sempre più incerta la possibilità di proseguire un cammino di emancipazione e crescita delle condizioni personali e sociali. Viene da pensare: quando si è smesso di considerare che l’economia è fatta per il benessere delle persone, di tutte le persone? Abbiamo forse dato troppo per scontato che la dignità umana sarebbe rimasta il faro dello sviluppo?

Non c’è solo la disoccupazione, l’impoverimento, l’insicurezza, il rancore e la rabbia a dirci con chiarezza che qualcosa non va nei meccanismi di produzione e redistribuzione della ricchezza, e che di questo bisognerebbe finalmente cominciare a discutere.

Ci sono anche dati, ormai inequivocabili, che parlano di come la crisi economica e sociale stia danneggiando la salute delle persone. Ricerche internazionali quantificano come povertà, problemi finanziari e privazioni sociali siano i maggiori fattori di rischio di malattie e disordini mentali, insieme a suicidi e abuso di alcol. La disoccupazione aumenta l’incidenza della depressione. Tra il 2006 e il 2010, a causa della perdita del lavoro, i sintomi depressivi sono aumentati del 4,78% negli Stati Uniti e del 3,35% in Europa.

I recenti studi sulla popolazione lombarda hanno mostrato che l’insicurezza del lavoro è associata alla crescita dell’uso di psicofarmaci (di cui fanno parte: antipsicotici, antidepressivi, sedativi, ansiolitici), così come un basso livello della soddisfazione per la propria occupazione e un clima incerto sul posto di lavoro. Questo è vero per tutti, ma soprattutto per i maschi, particolarmente per ciò che riguarda l’uso di antidepressivi e benzodiazepine. Si stima che chi ha perso il lavoro ha il 20% in più della probabilità di assumere psicofarmaci.

Non c’è solo il problema di un’occupazione instabile e della paura di non poter mantenere i propri cari. Anche condizioni di lavori stressanti, pressioni sulla produttività, aspettative di riconoscimenti sociali, sono tutti fattori che contribuiscono a rendere più fragili le persone.

Sembra paradossale visto che le generazioni precedenti hanno attraversato periodi di povertà, di disoccupazione e sotto-occupazione molto più marcate dell’attuale. Senza contare le tutele inferiori se non inesistenti. Eppure le persone sapevano reagire meglio alle difficoltà, si rassegnavano e si deprimevano meno di adesso. Ma non c’è da stupirsi: siamo fatti per andare avanti, non per tornare indietro. Tanto che quando la storia impone retrocessioni o frenate, si rimane smarriti e angosciati. L’attuale peggioramento delle condizioni di vita viene vissuto male e l’uso di farmaci ne appunto è il segno. In fondo è plausibile accettare cambiamenti di fronte a guerre o a tragedie naturali, ma diventa insopportabile doverli sopportare di fronte a eventi che appaiono come inspiegabili.

Quindi, a maggior ragione, la più importante lotta da portare avanti in questo momento è quella di affermare il lavoro come espressione della propria dignità e come strumento della crescita propria e altrui. Tutto questo non può essere affrontato garantendo semplicemente un reddito. Le persone in stato di disagio, se non di povertà, vanno sostenute, ma il modo più importante per farlo è aiutarle a valorizzare le loro capacità. Uno modello di sviluppo umano è quello che crea lavoro in condizioni dignitose e garantisce un’occupazione a tutti.

Dare il reddito senza lavoro vuol dire fare come il pifferaio magico con i topini: si finisce tutti nel fiume.

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