L’inganno del rancore

Alcune parole scritte nel 1940 da Maria Zambrano aiutano a capire il momento che stiamo vivendo, dove il rancore sembra avere il sopravvento. FERNANDO DE HARO

Sono passati quasi 80 anni. Correva l’anno 1940, la guerra spagnola era finita e iniziava il tremendo periodo postbellico di repressione. Il Vecchio Continente aveva ceduto al disastro. Fu in quel momento che Maria Zambrano scrisse il saggio “L’agonia dell’Europa”, che dopo tanto tempo ci aiuta a capire cosa ci sta succedendo ora. “L’Europa è in declino – dice la filosofa spagnola -. Ora non sembra necessario dirlo”. Di fronte al disastro, “il rancore accumulato si scatena, viene alla luce senza maschera. Oggi questo risentimento si raccoglie e si diffonde con un tremendo impeto negativo; corrode, annulla, cancella, trasforma il mondo in uno spazio vuoto e desolato. Priva gli occhi della bellezza delle cose e strappa astutamente dal cuore tutto ciò che può amare”. 

La crisi come risentimento, come rancore. Ma rancore contro cosa, contro chi? Qual è la promessa non mantenuta che lo scatena? Contro gli Stati che hanno cessato di essere sovrani e sono diventati impotenti, contro i mercati che non sono perfetti… contro un sistema che non ha funzionato. Perché ci avevano educato al principio della “ragione sufficiente”, perché credevamo che se qualcosa accadeva era per determinate ragioni, perché a ogni causa doveva seguire il suo effetto, e ora questo non basta più. 

Risentimento contro la realtà. “La cosa terribile del rancore è la sua apostasia essenziale; si rivolta ciecamente contro ciò che potrebbe salvarlo”, dice Zambrano. Rancore, tristezza, disagio e disgusto per una libertà sfrenata e straripante. Risentimento e ribellione per una libertà ancora troppo limitata. Coloro che si rattristano per una libertà sfrenata o insufficiente non sono su sponde diversi, ma dalla stessa parte: quella di crede ancora, quando il sistema è crollato, che pensare bene, in modo ordinato, precisando cause e conseguenze in modo ordinato, risolva tutto.

Negli stessi anni in cui scriveva Zambrano, lo faceva anche la poetessa uruguaiana Idea Vilariño. In una poesia memorabile suoi versi dicono: “Forse non era pensare, la formula, il segreto, / ma darsi e prendere ingenuamente / Forse non era pensare, la formula, il segreto, / ma amare e amarsi, ingenuamente”. Forse l’alternativa tra il rancore e la tristezza che produce una gabbia sempre troppo stretta e il vedere e prendere la bellezza del dato è quel che fa la vera differenza. Certo, vogliamo continuare a pensare, ma come? A partire da dove? La differenza non è tra i difensori della tradizione e i difensori del progresso, tra laici e religiosi, tra i sostenitori dei nuovi diritti e i sostenitori dei vecchi diritti, tra destra e sinistra. La questione è trasversale.

Ci piacerebbe che ciò che chiamiamo tradizione (confondendo l’origine con gli effetti) fosse ancora in piedi. La tradizione continua a essere trasmessa, ma l’edificio è collassato e non si rialzerà, distorcendo le fondamenta. Ci piacerebbe che quello che chiamiamo progresso facesse il suo corso, ma come dice Zambrano siamo in “una palude formata dai sedimenti del più bel passato. Della fede nella ragione, dell’ardore per l’esercizio del pensiero resta un fangoso scetticismo”.

Ci piacerebbe che la laicità continuasse a separare ciò che deve essere separato. Ma in questi tempi nuove teologie politiche sembrano invadere tutto. E il religioso è sempre meno veramente religioso, cioè meno razionale, meno reale. Zambrano, con genialità, sottolinea che “questi frutti di cenere, morsi dal nulla” sono la testimonianza di qualcosa. “Nel loro stesso fallimento scoprono una verità: la verità della creatura umana disperata, senza riparo, ma anche senza rassegnazione. Non sono costruzione, ma confessioni rivelatrici di un desiderio di liberazione”.

Desiderio inestirpabile di liberazione. Una liberazione che, suggerisce Zambrano è negli occhi. Isabel Muñoz, forse la migliore fotografa spagnola del momento, ha ricordato in una recente intervista che i suoi maestri le dicevano sempre che doveva vedere. “La differenza tra guardare e vedere – diceva Muñoz – è amare quello che osservi”.

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