Contratto di governo: il Calenda dimenticato

Di Industria 4.0 nelle bozze di contratto filtrate sui media non si parla. Ma Industria 4.0 è già concretamente "flat tax" e "reddito di cittadinanza". GIORGIO VITTADINI

Anche nelle bozze evolute del “contratto di governo” Lega-M5s, il paragrafo sulla politica fiscale si presenta breve, non del tutto articolato, neppure sulla flat tax, cavallo di battaglia elettorale di Matteo Salvini. È qui che la coalizione tuttora in embrione sta mostrando tutti i suoi limiti sul terreno della politica finanziaria. Spicca l’incapacità di vedere nel rimodellamento della tassazione un veicolo maestro di quel cambiamento che Lega e M5s dicono di voler portare in Italia. E dietro questa mancanza s’intravvede un equivoco ancor più preoccupante fra i due “quasi-vincitori” del 4 marzo e i loro elettori.

Questi ultimi – in parte con rabbia e frustrazione “antipolitiche” – hanno chiesto a un nuovo governo crescita, occupazione, nuove opportunità: una via d’uscita autentica da un decennio durissimo di recessione e sfiducia. Flat tax e reddito di cittadinanza, per quanto elementari, sembravano le bandiere elettorali di due forze che si supponeva avessero chiara la distinzione fra mezzi e fini: la semplificazione delle aliquote tributarie come stimolo alle imprese; il reddito di cittadinanza come simbolo di modalità d’intervento prioritario a favore di fasce sempre più estese di italiani esclusi. S’immaginava che queste forze avessero ben chiaro l’obiettivo: la riattivazione dello sviluppo per l’intero sistema-Paese. Non semplici e brutali redistribuzioni fra “ricchi” e “poveri”, “settentrionali”e “meridionali”, “occupati” e “disoccupati”, “dipendenti pubblici” e “lavoratori privati”, “imprese/lavoratori autonomi” e “salariati” e così via.

Il piano Industria 4.0 messo a punto dal ministro Carlo Calenda ha rappresentato, per la verità, un importantissimo passo in avanti nella politica industriale. Una coalizione politica che si ritiene matura per guidare un Paese come l’Italia non può avere paura di far propria una strategia economica che ha mostrato di funzionare. Industria 4.0 è già concretamente flat tax e “reddito di cittadinanza”: abbatte le tasse a chi digitalizza la produzione e indirizza risorse pubbliche per dare opportunità ai giovani che non hanno lavoro (anche quelli del Sud), a patto che abbiano voglia di studiare molto e in modo nuovo, di muoversi molto, dentro e fuori l’Italia. Calenda ripete – correttamente – che Industria 4.0 non può dispiegare effetti reali se non dopo un arco minimo di cinque anni e affiancando progressivamente gli incentivi per “Formazione 4.0”. Di Industria 4.0 nelle bozze di contratto filtrate ancora ieri sui media non c’era traccia.

Ma da un capitolo “fiscalità per lo sviluppo” da parte di Lega e M5s ci si poteva attendere anche altro. Ad esempio: le Srl semplificate sono diventate, in cinque anni, 170mila, ormai un decimo delle società di capitale italiane. È un format pensato per l’imprenditoria giovanile, per la re-imprenditoria degli over 50, per tutti gli italiani e le italiane che vogliono mettersi in gioco – alla luce del sole – anche solo con 500 o mille euro di capitale iniziale. Perché non andare avanti su questa strada? Perché un governo che si autoannuncia “di svolta” non deve poter dire: punto su questi italiani, scelgo tutti quelli che accettano di creare impresa e occupazione secondo le regole del gioco? Un esecutivo che voglia superare una fiscalità troppo pesante nella sostanza e troppo burocratica nella forma può cominciare da qui: il “taglio delle tasse” è innanzitutto uno stimolo alla competitività e un premio alla legalità. È uno strumento di politica economica in una democrazia di mercato.

A tutte le imprese italiane – ma in particolare le 20mila che producono la larga parte dell’export – è poi indispensabile un quid in più sul piano infrastrutturale: anzitutto nell’accesso alla banda larga. Cos’è più “reddito di cittadinanza” che offrirla gratuitamente a tutti quelli che studiano e lavorano in Italia?

La Cassa depositi e prestiti vede certamente enfatizzato il suo ruolo di promotrice dello sviluppo infrastrutturale, facendo evolvere la sua mission originaria di intermediario pubblico fra risparmio “paziente” (con forte protezione e redditività sostenibile, tipicamente per le famiglie) e investimenti-Paese a lungo termine. Per questo non ha bisogno di strappi, rottamazioni, palingenesi e rivoluzioni: fermo restando che risponde sempre al ministro dell’Economia in carica. Ma non è certamente “politica economica” partire dal risiko delle poltrone Cdp da rinnovare a giugno e non da uno studio serio su come rilanciare l’Ilva a Taranto (cosa ben diversa dal “salvare l’Ilva con i soldi pubblici”).

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