Roma, le tracce dei Cristiani

- Giorgio Vittadini

A Roma ci sono diverse tracce del primo Cristianesimo. Ma ancora oggi ci sono realtà dove è possibile riscoprire la compagnia cristiana

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Tra Natale a Capodanno ho trascorso un paio di giorni a Roma con un gruppo di amici. L’idea era fare una gita e conoscere meglio le tracce lasciate dai primi cristiani. Siamo ripartiti convinti che quello che abbiamo visto contiene davvero il seme della speranza e della fiducia, personali e sociali, di cui abbiamo bisogno anche oggi. Duemila anni fa, quando il Cristianesimo è apparso a Roma, nonostante l’evoluzione della sua civiltà, la stragrande maggioranza del popolo viveva in condizioni di enormi differenze sociali, schiavitù e povertà estrema. La vita del singolo valeva poco, la speranza di vita era bassa e si conviveva con un senso cupo del destino (nell’aldilà erano ombre evanescenti anche i grandi, come si evince dall’Eneide).

Visitando una catacomba come quella di Santa Agnese, sulla Nomentana, si capisce perché il Cristianesimo sia stato una rivoluzione epocale. In un cunicolo, dove si trova la tomba di una bambina di due anni, compare raffigurata una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco: simbolo della salvezza, così come rappresentata nel racconto dell’Arca di Noè. E quindi immagine dell’anima in un mondo di pace. Anche la morte di una bimba non è un fatto di disperazione, ma di speranza, perché la resurrezione di Cristo ha testimoniato la possibilità per tutti di una vita dopo la morte. Infatti, le catacombe erano un luogo di vita e non di morte, a differenza delle lugubri necropoli pagane. Ci si andava per celebrare la seconda nascita al cielo dei propri cari, che rimanevano in un’altra dimensione, come amici invisibili ma presenti nel corpo misterioso del popolo di Dio.

Una diversa concezione della morte apriva a un nuovo significato della quotidianità per tutti perché Cristo era percepito come una compagnia che dava speranza e gioia impossibili da immaginare prima. In questo sentimento della vita, non c’era più “né schiavo né libero”: vigeva la carità che accomunava le matrone romane, come santa Costanza, figlia di Costantino, i ricchi senatori e i poveri, che venivano aiutati e sfamati dai primi.

Non c’era più differenza di valore tra uomo e donna: sull’esempio di Cristo, la donna ha cominciato a essere considerata con la stessa dignità di un uomo. Una testimonianza di questo è rappresentata nel bellissimo mosaico dell’abside di Santa Agnese, dove la santa viene raffigurata come un’imperatrice bizantina, addirittura al centro del mosaico, nel posto tradizionalmente assegnato a Cristo.

E ancora, non c’era più “né giudeo né greco”: la prima comunità cristiana non è per pochi iniziati, come il culto di Mitra, visibile nel terzo strato del complesso di san Clemente, né riconducibile a una etnia come la religione ebraica, né riducibile al civis romano. Quello che si realizzava era la promessa del giorno della Pentecoste, quando nasce una comunità etnica sui generis, unita alla radice da un vincolo spirituale indissolubile.

E cambia il giudizio su ciò che è positivo e negativo nella vita: al centro di questo nuovo popolo ci sono quelli per cui la vita sembra finita peggio, i martiri, “gli amici invisibili”, che con la loro presenza fanno crescere la comunità cristiana, come racconta Peter Brown, professore della Princeton University e grande esperto del mondo antico, nel bellissimo libro Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità.

Santa Agnese, adolescente, uccisa perché voleva difendere la sua verginità dedicata a Cristo; San Lorenzo, che prima di essere bruciato, alla richiesta di consegnare i tesori della Chiesa, porta con sé i poveri di Roma; Santa Prassede e santa Pudenziana, uccise dopo aver costruito una chiesa in cui raccoglievano il sangue dei martiri; le figlie del senatore martirizzato Pudente, convertito a Roma dall’apostolo Paolo.

La Chiesa istituzionale si insedierà nel luogo del martirio di Pietro, e tutto il popolo di Dio mostrerà, lungo la storia, che il senso e la soddisfazione supremi stanno nel dare la vita per amore di Cristo, così come fece Lui. Retaggi di un passato che non verrà più?

Durante l’Angelus, nella festa della Sacra famiglia, papa Francesco parla dello stupore di Maria e Giuseppe di fronte a Gesù adolescente tra i dottori del Tempio, e della loro angoscia quando non lo trovano per tre giorni. E per un attimo richiama tanti all’esperienza di stupore, provata nell’incontro con un “divino nascosto” nel volto di qualcuno, e di angoscia quando ce ne dimentichiamo. Il contrario di un Cristianesimo come annichilimento dell’essere umano, così come ne ha parlato Emanuele Severino in una recente intervista sul Corriere della Sera.

Ma sono tante le testimonianze di una fede in Cristo che non è il “librarsi di un cielo sulla terra”, ma è un “vibrare”, più veramente umano della terra, come diceva don Giussani. A Tor bella Monaca, una di quelle borgate della Roma di oggi dove tra droga, povertà, degrado, violenza, abbandono dello Stato non esiste più neanche la memoria della tradizione cristiana, tanti ragazzi si stanno appassionando al Cristianesimo. Non come un rito del passato, ma come un incontro vivo con persone con cui condividere le domande che stanno più a cuore: “Perché andare a scuola? Cosa cerchiamo nella vita? Come contribuire a costruire una società migliore?”.

Tanti, nella confusione e nell’insoddisfazione di oggi, stanno riscoprendo una compagnia cristiana che accende e rende più grande il desiderio del cuore e mostra che la vita ha un compito, che si può cambiare, imparare, amare, costruire. È nella possibilità di vincere contro il nulla e la distruzione di sé, presenti in tutte le epoche, la testimonianza del cambiamento impossibile a un uomo senza Dio. Ed è ciò che l’antropologo spagnolo Mikel Azurmendi afferma essere la prova della verità del Cristianesimo, più convincente di ogni dibattito teologico o filosofico.

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