Nobel e povertà: il segreto è nei particolari

È un bel segnale quello che arriva con l’assegnazione del Nobel 2019 per l’economia. Fa sperare che qualcosa stia cambiando

È un bel segnale quello che arriva con l’assegnazione del Nobel 2019 per l’economia. Fa sperare che qualcosa stia cambiando, almeno nel pensiero, se non ancora nella prassi economica. Sembrano passati secoli da quando, negli anni Novanta, i Nobel erano assegnati a studiosi che mostravano il rendimento di qualche derivato finanziario.

Da tempo gli accademici di Svezia hanno deciso di premiare non chi si accanisce su alchimie algoritmiche, ma chi sta ripensando i fondamenti stessi dello sviluppo: come si genera una crescita? Quali fattori sono essenziali a determinarla? A partire da quali input?

Così nel 2017 il Nobel per l’economia era stato assegnato a Richard H. Thaler che, in particolare con la sua “spinta gentile”, ha ridefinito il concetto di razionalità economica, richiamando la necessità che al centro dei modelli sia messo il loro agente, gli esseri umani. Nel 2018 il premio è andato a Paul Romer e William Nordhaus, che hanno proposto metodi per dar vita a una crescita durevole e sostenibile.

Quest’anno a essere insigniti dell’importante riconoscimento sono stati Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, per aver messo a tema l’economia dello sviluppo e, al suo interno, il grave problema della povertà. È importante notare che i principi e i criteri utilizzati, ritenuti degni di nota dall’Accademia, valgono per lo sviluppo tout court e, anzi, hanno estremo bisogno di essere rivalutati all’interno del pensiero economico. In particolare, essi sono: sperimentazione, concretezza, rigore.

I tre studiosi da tempo hanno messo sotto i riflettori della loro osservazione programmi sperimentali circoscritti e concreti attraverso l’approccio rigoroso delle ben conosciute tecniche dei randomized controlled. Attraverso queste metodologie si attuano su due popolazioni simili due diversi interventi sulla povertà e si verifica quale sia il più efficace. Ad esempio, Kremer studiò in Kenya cosa incidesse maggiormente sulla frequenza a scuola, tra la donazione di libri e materiale didattico, incentivi monetari destinati a questo scopo, piuttosto che farmaci per combattere le infezioni intestinali. Anche Duflo e Banerjee hanno fatto esperimenti con lo stesso metodo in India a riguardo di politiche per migliorare le condizioni sanitarie, l’educazione, le attività imprenditoriali.

Al di là dell’esito (nel lavoro di Kremer si rivelò comunque più importante il terzo fattore), è fondamentale l’approccio. Secondo parametri neoliberisti ancora molto in voga, solo i meccanismi generali del libero mercato sono in grado di garantire lo sviluppo e questo si raggiunge in modo tutto sommato equilibrato con la massimizzazione dei profitti individuali e aziendali.

Invece, dicono i tre studiosi, non ci sono modelli economici generali da applicare in astratto, ma c’è bisogno di prestare attenzione alle specifiche caratteristiche della popolazione, occorre agire con piccoli interventi alla portata dei diretti interessati. La povertà non può essere compresa con indicatori medi e con analisi generalizzate: l’arretratezza culturale ed educativa assume mille sfaccettature nei diversi gruppi etnici, sociali, territoriali, che non possono essere appiattite, ma vanno guardate con attenzione.

In questo riconoscimento viene assunto un fatto semplice: non possono esserci sviluppo ed emancipazione che non nascano dal basso, dalla persona e dai suoi legami, dal suo prendere l’iniziativa verso se stessa e verso gli altri. Perché la povertà non ha solo ragioni economiche dovute alle ineguaglianze del sistema, è innanzitutto mancanza di istruzione e di educazione, è povertà culturale, che se ignorate rendono inutile ogni elargizione economica. Anche l’introduzione di nuove tecnologie risulta inutile, se prima non si preparano le persone a usarle.

Bisogna invece imparare a leggere, all’interno dei singoli territori e delle singole situazioni, i molteplici aspetti in cui si declina la povertà.

È un approccio allo sviluppo che potremmo definire sussidiario: un dialogo affinché crescano istituzioni locali, affinché le persone si educhino e sviluppino il loro capitale umano, affinché si collabori nella costruzione di progetti validi caso per caso.

Questo spiega perché sia inutile mettere in mano, con politiche solo assistenzialistiche e centralistiche, somme di denaro ai poveri perché possano emanciparsi. Lo si è visto negli interventi assistenziali del welfare americano degli anni Sessanta a favore dei sottoproletari delle periferie nelle grandi metropoli piuttosto che nelle risorse sprecate anche oggi nel nostro Sud.

La ricerca scientifica non va usata per trovare regole astratte valide per tutti. Nelle questioni umane non si può mai astrarre o prescindere dagli aspetti umani e dalle condizioni di vita. Al contrario, bisogna tornare a esaltare il valore irrinunciabile del caso particolare. È una nuova frontiera per la scienza economica, spesso la più ideologica delle scienze umane, proprio nella sua pretesa di essere “neutrale” nei suoi metodi, quando non sono usati come strumenti in mano a chi osserva davvero il reale.

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