Un ministro dell’Istruzione si dimette senza aver neanche concluso il primo quadrimestre (di governo); e viene messa una pezza al buco senza colpo ferire. Anzi, due pezze, una alla scuola e una all’università. Come se il problema fosse sempre e solo quello di compilare gli organigrammi, e il principale manuale scolastico per tutte le materie il mitico “Cencelli”.
Poteva, anzi avrebbe teoricamente potuto essere l’occasione per aprire un dibattito serio e impegnato sulla scuola. A cominciare da Fioramonti: almeno ci avesse fatto sapere dove avrebbe voluto spendere quei tre miliardi che non gli hanno dato. Vale, ahimè, l’amara considerazione di Pierluigi Battista (Corriere della sera di venerdì): “La politica ha smesso da tempo di interrogarsi sulla missione che la scuola dovrebbe assolvere, su suo ruolo cruciale” in una società cambiatissima e in perenne liquido e vorticoso mutamento.
Motivi di riflessione ce ne sono numerosi e molto seri. Dati quantitativi importanti sono stati forniti anche recentissimamente dal rapporto dell’Ocse “Education at a glance 2019”, che si riferisce ai 36 paesi sviluppati che ne sono membri.
Lato docenti. La nostra scuola è quella più carica di docenti anzianotti (il 59% ha più di 50 anni), ed è ultima in classifica per la presenza di docenti giovani di 24-35 anni. L’80% sono donne, età media 54 anni. I prof maschi sotto i 34 anni sono lo 0,3%. Il 68% degli insegnanti è insoddisfatto del salario. La cui media è di 24mila euro annui lordi. I precari sono una storia infinita.
Lato studenti. Dopo i 18 anni più di un quarto è Neet (Not engaged in education, employment or training), cioè non studia, non lavora, e non si prepara: 26%, contro una media Ocse che è la metà, 14%. I laureati 25-64 anni sono il 19%, la media Ocse è 37%.
Spesa o investimento? Gli stati dell’Ocse destinano all’istruzione e ricerca in media il 5% del prodotto nazionale lordo, noi il 3,6%. Dal 2009 a oggi la riduzione degli stanziamenti è stata del 9%. Ergo: la scuola per la nostra politica è spesa (più tagliabile di altre), e non investimento. Errore deleterio.
Fuori dai rapporti ufficiali, c’è la situazione delle persone impegnate nella scuola, il quotidiano che non di rado “taglia le gambe”. Riassumiamo con l’aiuto degli studi di Maria Teresa Serafini, autrice tra l’altro di Perché devo dare ragione agli insegnanti di mio figlio.
Ecco alcuni guai. Stipendi bassi, già detto. Burocrazia crescente: più carte da compilare che didattica, più circolari che libri. Appesantimento dei processi e frustrazione delle decisioni dovute al mito della collegialità: tutto tutti insieme anche se già deciso prima altrove. Mancanza di un minimo di meritocrazia: chi si danna per aggiornarsi ed essere creativo è uguale a chi vivacchia attraversando i decenni. Quanto ai ragazzi, la Serafini mette in evidenza la distrazione dei cellulari, la mancanza di senso dell’autorità, la solitudine del docente di fronte al sindacalismo dei genitori, a volte di fronte al loro bullismo. Cioè la rottura del patto educativo.
C’è un’emergenza scolastica nazionale, più emergenza ancora dell’Ilva e dell’Alitalia? Certo che sì, bisognerebbe avere le fette di salame sugli occhi per non vederla.
Il tipo di problemi che la scuola attraversa, ci mostra tuttavia che l’emergenza non è solo scolastica in senso stretto ma anche educativa. Le due emergenze si intrecciano e probabilmente si alimentano a vicenda.
La politica dovrebbe con pazienza e umiltà imparare ad occuparsi della prima emergenza, prendendone coscienza, aprendosi a un confronto vero e profondo con gli attori coinvolti, con le esperienze positive, con gli uomini di pensiero. Senza nocive improvvisazioni. Con la lungimiranza di chi è consapevole che un ciclo educativo dura vivaddio più di un ministro, e il paese più a lungo di un governo.
L’emergenza educativa ci interroga tutti. Qui più che le ricette valgono le esperienze. Ci sono ipotesi, percorsi, tentativi in grado di rimettere la persona del ragazzo al centro, insieme alla dignità dell’insegnante? Perché lo scopo di un’educazione è aiutare l’io a costruire un rapporto consapevole e positivo con se stesso e con tutta la realtà. Cioè a venir fuori dal nulla, perché ciò che compromette tutto è il relativismo nichilista.
Analogamente, dove un insegnante malpagato (speriamo ancora per poco tempo) può ritrovare e alimentare una passione di comunicazione costruttiva e coinvolgente e non rassegnarsi al nulla piatto della routine che gira al minimo? Nel traboccare di una pienezza dentro di sé, nel tracimare di un’esperienza della bellezza che attrae e contagia. Tutto ciò è bene che emerga nel cosiddetto discorso pubblico. Se no, di cosa parliamo? Del numero che Ibrahimovic sceglierà per la sua maglia rossonera?
Se qualcuno ha un’idea migliore per motivare un giovane di oggi a fare con passione l’insegnante domani… siamo tutt’orecchi.