Ripartire da un Ppe (meno tedesco)

- Gianluigi Da Rold

A meno di cento giorni dalle elezioni europee sembra che Ppe e Pse non saranno più maggioranza. Il sogno europeo svanisce per errori evidenti

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Il Parlamento europeo (Lapresse)

Mancano meno di cento giorni alle elezioni che rinnoveranno il Parlamento europeo e, di fatto, si è entrati in una sorta di tunnel dove la luce dell’uscita è rappresentata da una tenue speranza: quella di ritrovare un’Europa dove si possano per lo meno ricomporre le divisioni più acute, dove si possano dimenticare gli egoismi più meschini e si possa ricominciare a ragionare come cittadini europei.

Viene sempre in mente il “manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli, quasi fosse un biglietto da visita dell’europeismo. Ma non c’è dubbio che il ricordo più vivo resta quello del primo discorso politico del francese Robert Schuman, allora ministro degli Esteri, pronunciato a Parigi alle ore 16 del 9 maggio 1950. Quello fu il primo intervento ufficiale in cui comparve il concetto d’Europa intesa come comunità economica e in prospettiva politica tra i vari Stati europei.

Con quel discorso si cancellava la Sedan del 1870, si cercava di dimenticare i rancori e le vendette di due guerre mondiali del Novecento. Si pensava a uno sviluppo complessivo dell’Europa, con la ricostruzione sopratutto della Germania, ma anche di tutti i paesi vincitori o sconfitti come l’Italia. Interessati a contenere il comunismo a Est, gli Stati Uniti furono gli alleati che, in quel momento, spingevano con convinzione per la costruzione del disegno europeo.

Gli uomini che si accompagnavano a Schuman si chiamavano Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, due protagonisti che volevano contribuire a fare dell’Europa una grande potenza economica. E lo facevano tra diffidenze, indifferenze e contrasti interni nei loro paesi, con uno slancio costruttivo incredibile, quasi portando sulle spalle un senso di colpa che loro di certo non meritavano. Sentivano probabilmente il dovere, in nome di tedeschi e italiani, di rimediare ai disastri dell’ultimo conflitto mondiale. È la vera storia dei moderati e centristi che daranno vita con il loro insegnamento al Ppe, il Partito popolare europeo.

L’inizio di questa storia fino al Trattato di Maastricht è una delle pagine più belle che sia stata scritta dalla politica. Il contraccolpo di questi anni, sin dal 2004 con l’allargamento immediato e irragionevole dell’Unione Europea, la politica neoliberista accettata senza senso, la mancanza di integrazione a ogni livello (soprattutto istituzionale, fiscale, politico-economico), la perdita di credibilità, la crisi economica che non si risolve mai, sono un autentico tradimento della vocazione, dell’impegno, del desiderio profondo di quei “padri fondatori”.

Il cammino dell’Europa è stato in realtà segnato da due famiglie politiche: la prima è appunto il Ppe, moderato di centro o di centrodestra, contrassegnato dalla presenza di democratici cristiani e conservatori; la seconda il Partito del socialismo europeo, la vecchia socialdemocrazia, quella che si rifaceva alla Bad Godesberg tedesca, che nel 1959 abbandonava definitivamente il marxismo.

Se il Ppe era il perno, la socialdemocrazia europea era l’alleato ideale, con una maggioranza che coniugava sviluppo economico, crescita, welfare e rispetto delle regole democratiche. Quella maggioranza è stata per tanti anni una garanzia così importante e data per acquisita, che nessuno si sognava di pronunciare il termine di tecnocrate europeo.

Alla vigilia delle elezioni del prossimo 26 maggio, questa maggioranza, secondo i sondaggi, non c’è più, non esiste più. I due partiti insieme raggiungerebbero, se va bene, il 45%, per le perdite gravi del Ppe e quelle gravissime dei socialisti (in una città come Berlino, la Spd è valutata alla pari dell’AfD di estrema destra). Ma se la crisi dei socialisti parte da lontano, attraversa tutti i Paesi, soffre delle contraddizioni storiche della sinistra all’alba del “terzo millennio”, non riuscendo più (fatto incredibile) a giustificare un’identità riformista dopo il crollo del comunismo, la crisi dei centristi europei, dei veri artefici dell’europeismo, del Ppe è la vera caduta del disegno della grande Europa unita e integrata.

Per quale ragione il partito dei centristi europei, dei democratici cristiani e dei conservatori non riesce più a mantenere le sue posizioni? Non vi è dubbio che il Ppe era e deve restare il perno di una ancora possibile Europa unita e realmente integrata. Ma il principale azionista del Ppe, cioè la Cdu-Csu tedesca ha creato delle contraddizioni drammatiche nell’Unità europea. In fondo Helmut Kohl ha giocato la carta della riunificazione della Germania, tra mille diffidenze, sempre con spirito europeistico. Non ha fatto la stessa cosa la sua “allieva”, Angela Merkel, che gli voltò le spalle al momento opportuno. La Cancelliera che veniva dall’Europa dell’est ha dato il via a una politica europea segnata dagli interessi tedeschi (il surplus nelle esportazioni), l’influenza sulle politiche del Nord Europa e i richiami, non sempre marginali, ai paesi del sud Europa.

Un partito che aveva nel suo Dna un’economia di mercato con notevoli risvolti sociali, ha letteralmente sposato ordo-liberismo e neoliberismo in modo totale prima della crisi del 2008. Il trading bancario in Germania è un totem intoccabile, che accumula una valanga di derivati in grado di far saltare il banco con una crisi che potrebbe avere gravi ripercussioni anche sull’economia mondiale. E, nonostante questo, ci si è ben guardati dal fare qualcosa nel vedere la Grecia andare letteralmente per aria e in miseria.

Si aggiunga a questo, una continua e occhiuta politica di rispetto dei parametri di Maastricht, che solo i tedeschi e alcuni “pensatori” nostrani accettano, ma economisti come i premi Nobel Stiglitz e Krugman denunciano continuamente, definendo alcuni ministri europei delle “cheerleaders dell’austerity” e delle ricette sbagliate. Angela Merkel è andata avanti imperterrita in questi anni, creando una caduta di credibilità dell’Europa e una crescente irritazione contro la Germania.

Se l’Europa e la globalizzazione dovevano essere la speranza di un maggior peso dell’Unione Europea nella politica mondiale e la garanzia di un nuovo sviluppo, le attese si sono rivelate disillusioni. Dopo la crisi del 2008, il neoliberismo non è riuscito a far ripartire veramente l’economia e le diseguaglianze sociali si sono moltiplicate, la disoccupazione è cresciuta, lo sviluppo non è avvenuto e c’è pure il rischio che si arrivi in dieci anni alla terza recessione. Non è azzardato quindi affermare che la ragione del dilagare dei populismi stia proprio in questi errori.

Ma è pensabile un’Europa che non abbia più come suo baricentro politico il Ppe o una maggioranza a mosaico impazzito? La partita che si deve giocare sta proprio nella ricostruzione di questa forza moderata, che ritorni al programma di un’economia di mercato segnata da un deciso tratto sociale, che abbia un’identità di attenzione alle esigenze delle persone, alla politica economica non solo all’economia, alla crescita e ai grandi investimenti e non agli algoritmi e ai numeri.

Infine, sia la Merkel che il successore dell’attuale cancelliera non dovrebbero mai dimenticare quello che scriveva il vecchio cancelliere Helmut Schmidt, consigliando l’insegnamento di Thomas Mann: meglio una Germania europea che un’Europa tedesca. Questo dovrebbe essere il motto di un rinnovato Ppe.

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