I veri pericoli della “democrazia diretta”

La proposta di legge sulla “democrazia diretta” presentata da M5s nasconde, dietro un’apparente istanza giusta, una disintermediazione pericolosa

Nel dibattito pubblico la democrazia diretta – in cui i cittadini possono esercitare direttamente il potere legislativo senza alcuna intermediazione – è considerata l’alternativa alla democrazia rappresentativa. Il controllore della piattaforma dei M5s, Davide Casaleggio, ha affermato in più di un’occasione che il Parlamento potrebbe non servire più.

I primi eclatanti germogli di questa visione sono già spuntati: non era mai successo che il Parlamento approvasse una legge di bilancio – ci riferiamo a quella dello scorso dicembre – senza averla discussa ed emendata. È stato un voto telepilotato su una scelta binaria: scegliere in blocco quello che il Governo proponeva oppure respingerlo.

La storia insegna che la democrazia diretta – nata sulla spinta ideale delle rivoluzioni americana e francese e sperimentata in Francia, Svizzera e alcuni Stati membri degli Usa – si espande quando la classe politica da popolare diventa aristocratica. Giusto. Tuttavia la qualità del mezzo non va confusa con chi non lo sa utilizzare. Così, la burrasca che si è generata scaglia le sue onde sul meccanismo della democrazia rappresentativa.

Occorre dunque fermarci e riflettere pacatamente sulle conseguenze per andare oltre gli slogan. Veniamo al merito. Anzitutto nella democrazia diretta le proposte non vengono fatte dai “cittadini”, ma da gruppi o comitati che spesso gestiscono in rete un portale e sono satelliti della politica (gruppi, think tank, associazioni ecc.). La libertà del cittadino è messa davanti a un’alternativa secca: scegliere tra un sì e un no. Nella democrazia rappresentativa, invece, davanti a una legge da approvare l’eletto esprime dubbi, critiche, fa sintesi di pro e contra discussi. Cosa capiterebbe se si portasse la popolazione a decidere direttamente sui temi sensibili legati alla bioetica, ai vaccini, al fine vita, alla tassazione, alla scuola ecc., ossia sui temi che richiedono mediazione politica? Basterebbero pochi poteri forti e qualche slogan per condizionare il voto. La proposta di legge in discussione in Parlamento prevede dei limiti di materia e un controllo a monte fatto dalla Corte Costituzionale. Ma sono solo argini che potrebbero essere abbattuti.

Secondo punto: le forme di democrazia diretta moltiplicano la presenza delle lobby, gruppi di interessi che sollecitano una proposta per i propri interessi particolari, finanziando prima la campagna di raccolta firme e poi quella elettorale per l’approvazione. Ma così, il referendum propositivo diventerà il risultato della volontà di (ricche) minoranze organizzate.

Terzo punto: se si proporranno temi “emotivi” che la popolazione vuole sentire e verso cui è disposta a consegnare il proprio consenso, il pathos della politica prevarrà sul logos su cui si basano i diritti costituzionalmente protetti delle minoranze. I giudici conteranno più dei politici, dovranno dirimere quei diritti che si sono formati “cavalcando” le emozioni del popolo.

Ultimo punto: i responsabili delle scelte nella democrazia diretta rimarranno senza volto, la responsabilità è sempre scaricata sul “popolo” o sui “cittadini” (in generale!). Il responsabile dell’indirizzo politico che emerge dal voto non saranno coloro che lo hanno davvero proposto o sponsorizzato (i gruppi organizzati, anche online), ma sarà la “volontà generale”, che nasconde sempre la volontà di un “generale”.

I meccanismi della rappresentanza sono invece chiari: in Parlamento la legge è presentata da un parlamentare, i lavori di discussione sono pubblici e accessibili in Rete, il testo è firmato dai parlamentari, dibattuto pubblicamente e votato dai rappresentanti politici di culture politiche diverse.

La disintermediazione operata dalla democrazia diretta è destinata a umiliare l’applicazione dei principi di sussidiarietà, solidarietà e di uguaglianza in cui crede la Dottrina sociale della Chiesa. È per questo che occorre trovare un bilanciamento per evitare di mettere in contrapposizione “il popolo elettore” e il Parlamento degli eletti, prima che valga la massima romana: vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo vuole essere ingannato, e allora sia ingannato.

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