Immaginiamo che lo scorso ottobre il governo Di Maio-Salvini non avesse presentato una bozza di manovra 2019 provocatoria per il rapporto deficit/Pil al 2,4%, per via di 9 miliardi destinati al reddito di cittadinanza e 7 per pensioni “quota 100”. Immaginiamo che il ministro dell’Economia Tria avesse potuto rivolgere alla Ue un’altra provocazione: un deficit ordinario subito concordato al 2%, con la concentrazione di una decina di miliardi di flessibilità su “misure straordinarie di sostegno alle famiglie in difficoltà” (lo ha fatto poche settimane dopo il presidente francese Emmanuel Macron). Ma immaginiamo anche che – a lato della manovra “ordinaria” – l’esecutivo italiano avesse lanciato un piano multi-deci-miliardario a 5 anni di grandi opere infrastrutturali: un’azione strategica di sviluppo della grandi infrastrutture attorno alla ricostruzione del Ponte di Genova; alla manutenzione della grande viabilità; al completamento del traforo Torino-Lione (ma anche di quello del Brennero), all’espansione dell’Alta Velocità al Sud, alla realizzazione della Tap, a un nuova progettualità sulle piattaforme portuali.
Ragionare con i “se” comporta sempre rischi e dubbi, ma non è fuori luogo immaginare che che il confronto fra Roma e Bruxelles non sarebbe degenerato nel pre-annuncio di una procedura d’infrazione contro l’Italia. Si sarebbe evitato lo spread a 350 per un mese con impatti reali a raggiera: non da ultimo, probabilmente, il commissariamento di Carige. E non è affatto escluso che con un approccio di politica economica mirato senza esitazioni sugli investimenti pubblici le stime sulla frenata in arrivo anche per il ciclo in Italia avrebbero potuto essere meno severe (lo ha fatto capire più volte negli ultimi giorni il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco). Con l’Italia in recessione tecnica a fine 2018 e previsioni sul Pil 2019 schiacciate a “zero-virgola” anche un paio di decimali in più avrebbero fatto la differenza nel sostenere la fiducia subito e la crescita a fine anno.
E’ questa l’unica cornice “costi/benefici” entro cui inquadrare il caso Tav: non quella dei tweet e dei professionisti dell’antagonismo a Torino. Non quella dei “no” para-ideologici, demagogici, elettoralistici di una forza politica che evidentemente pensa di poter distribuire “a prescindere” con la mano sinistra un reddito alla cui produzione si oppone in via pregiudiziale con la mano destra. Solo un “partito della decrescita” – cioè in palese falso politico-ideologico nell’area Ocse – può illudere dolosamente una parte della “cittadinanza” (senza lavoro e senza reddito) impedendo a un’altra parte della stessa “cittadinanza” di lavorare, di produrre reddito, gettito fiscale, lavoro per chi ancora non ce l’ha, valore aggiunto infrastrutturale a lungo termine.
Se l’Italia sarà chiamata a una manovra correttiva – un “se” quasi reale nel futuro immediato – l’unica provocazione possibile di un qualsiasi governo verso qualsiasi Commissione Ue s’insedierà dopo il voto europeo sarà l’annuncio fermo che l’Italia vuole realizzare al più presto la Tav verso la Francia. Verso l’Europa che l’Italia ha fondato alla pari con Francia e Germania.