L’inchiesta della procura di Perugia continua ad alimentare un serrato dibattito, come è giusto che sia. Abbiamo letto autorevolissimi pareri, qualche presa di posizione corporativa e abbiamo anche letto del messaggio, impeccabile, del presidente della Repubblica oltre che presidente dell’organo di autogoverno della magistratura.
Tuttavia, permane la sensazione che non si sia ancora messo a fuoco lo scenario entro il quale i fatti sono maturati e le loro reali conseguenze.
Non era mai accaduta prima che si dimettessero ben quattro consiglieri e che uno si auto-sospendesse (benché tale istituto non sia previsto dalle norme che regolano il funzionamento del Csm).
Sappiamo che l’inchiesta di Perugia veda come indagato il pm Palamara.
Sappiamo che quanto accaduto rappresenta null’altro che l’ultimo (non il primo, non l’unico) torbido effetto di quella perversa degenerazione correntizia che già da anni ha condotto alla disintegrazione dell’organo di autogoverno e di ciò che esso principalmente rappresenta ovvero l’autonomia della magistratura.
Il sistema è imploso dall’interno e pertanto esso va riorganizzato dall’esterno. Il Consiglio superiore della magistratura, organo costituzionale deputato alla tutela della garanzia di indipendenza della magistratura attraverso il riconoscimento dell’autogoverno, è diventato negli ultimi anni una camera di compensazione per la gestione, la “lottizzazione” (bizzarrie della lingua italiana se pensiamo al nome di uno dei principali protagonisti della vicenda) del potere attraverso la gestione delle nomine (direttive, semi direttive, di incarichi extra giudiziari, nelle commissioni del concorso, nel direttivo della scuola superiore, etc.), e soprattutto, per ciò che più riguarda i cittadini, attraverso la costante elusione della necessaria attivazione del controllo sulle responsabilità dei magistrati.
Lo scandalo, certamente grave, nasconde soprattutto tali conseguenze. Ha fornito la prova che l’autogoverno, così come concepito ed esercitato, non funziona. Il colpevole non è il maggiordomo, non sono i magistrati pizzicati; il colpevole è l’esistenza delle correnti che hanno creato gruppi di potere in costante, sotterranea fino a poco fa, lotta fra loro. E in questa lotta fra banda non ci sono buoni o cattivi. Sono, diciamolo a chiare lettere, tutti cattivi. I buoni sono la stragrande maggioranza silenziosa dei magistrati che questo sistema lo subiscono o al massimo lo blandiscono, senza volerne fare parte. Il ricorso ad alleanze trasversali sottobanco, anche con i membri laici ovvero la politica, al fine di avere il controllo del potere è in uso da anni. Molti anni. Troppi anni. Ricordare la vicenda di cui fu vittima Giovanni Falcone può apparire strumentale e di poco gusto, ma è pur sempre emblematica. Se si vuole restare all’attualità, basta scorrere l’elenco degli incarichi direttivi: non si trova un nome di un magistrato non iscritto alle correnti.
La degenerazione, nota francamente a tutti gli addetti ai lavori, è stata anche in passato denunciata da qualche temerario (più laici che togati, ahimè). Occorre allora che si avviino serie radicali rivoluzioni. Nell’immediato imponendo lo scioglimento delle correnti, nel medio periodo ragionando sulla gestione in sé dell’autogoverno. Anche qui occorre parlar chiaro. Non mi pare sia stato notato come dalla mole di fango venuta fuori emerga che le nomine per le quali più ci si affannava non erano quelle di presidente di tribunale o di corte d’appello, ma esclusivamente quelle di procuratore capo. Il motivo è presto detto: il potere di cui gode oramai l’ufficio del pubblico ministero – e quindi in particolare di colui che quell’ufficio è chiamato a dirigere – non ha eguali nell’ambito della funzione pubblica. Un pubblico ministero ad oggi dispone del potere di annientamento nei confronti di chiunque. Solo in parte è coerente con il sistema questo straripante potere. A fronte di tutta una serie di fisiologiche attribuzioni di poteri, ciò che lo rende straripante è l’assenza di controlli di responsabilità, che non sono i controlli giurisdizionali che, forse a fatica, tengono, ma sono quelli disciplinari che risultano del tutto assenti. E che rendono quel ruolo privo del tutto di un controllo reale sui danni che produce.
Qui la soluzione è più complessa e meritevole di maggiore riflessione. Nei sistemi anglosassoni, il procuratore capo è eletto dal popolo e risponde del suo operato al popolo. Se tale situazione, certamente non compatibile allo stato con la nostra Costituzione, non è ritenuta praticabile per le più svariate ragioni, va pensata un’ulteriore ipotesi. Si badi, non si tratta di ridimensionare un potere di svolgimento di indagini che deve restare presidio di legalità, ma si tratta, al contrario, di chiamare a rispondere del proprio operato quando questo è palesemente strumentale, forzato o anche solo oggetto di facili strumentalizzazioni.
Di questo arbitrio incontrollabile iniziano a farne le spese gli stessi appartenenti al gruppo ristretto di comando delle correnti.
La vicenda di cui ci occupiamo lo dimostra. Certo non rende gli indagati vittime di un complotto, restando partecipi di una guerra fra bande, molto poco ben spiegata all’opinione pubblica.
Sul punto vanno fatte due considerazioni. La prima. Palamara viene indagato per un’ipotesi di corruzione risalente ad almeno 12 mesi fa; gli viene inoculato un trojan e viene cosi intercettato 24 ore su 24, come consente tale strumento di indagine; non emerge alcun indizio di reità rispetto alla vicenda per cui è indagato; viene invece intercettato mentre pratica quel mercimonio di cui si è parlato; non viene indagato per il mercimonio (eticamente deplorevole ma penalmente irrilevante); le intercettazioni relative a quel mercimonio vengono divulgate. Non occorre una cattedra di procedura penale per comprendere che qualcosa non funziona. Le intercettazioni del mercimonio o costituiscono prova di un reato, e allora devono essere coperte dal più assoluto segreto, o non rappresentano alcuna fonte di prova e allora ancor di più non devono in alcun modo essere fatte oggetto di una campagna mediatica. Si dirà, ma se fosse accaduto così ciò di cui hai sin qui parlato e denunciato non si sarebbe palesato. La risposta è: sì, è così. Ma uno Stato di diritto vive di regole. Se nessuno le rispetta abbiamo un problema assai grosso. Mi chiedo perché nessuno si sia premurato di avanzare dubbi sulla legittimità di quanto accaduto sul piano processuale anziché calcare a spron battuto il mercimonio. Se Palamara verrà assolto o archiviato per l’accusa per la quale lo si è indagato e intercettato? Francamente non è persona a me simpatica, ma conoscere dell’esistenza di una amica a cui ha rivolto attenzioni francamente mi indigna.
Seconda, e ultima considerazione. L’uscita di queste intercettazioni non pare frutto di imperizia degli investigatori che in tutti i casi andrebbero indagati per la fuga di notizie. Facciamo attenzione alle date. Dopo anni di gestione del mercimonio su illustrato da parte di alcune specifiche correnti, l’elezione dell’ultimo Csm ha sancito un cambio di equilibri e quindi di poteri. Chi prima comandava, adesso è minoranza. Fra le varie nomine in ballo, la più prestigiosa è quella della capitale. La commissione del Csm che si occupa di formulare all’organo nel suo complesso (il plenum) le candidature per le nomine ha già esaminato le richieste e votato per un magistrato che appartiene alle correnti ora maggiormente forti. Ebbene, a pochi giorni dalla votazione, scoppia lo scandalo mediatico alimentato da un giornale che ottiene quel materiale intercettativo che dovrebbe essere super riservato e quella nomina praticamente certa salta. E non perché il nominando ovvero il procuratore capo in pectore è direttamente lambito dall’indagine ovvero comunque sul suo conto siano emersi fatti di rilevante gravità. Tutti lo ritengono persona degnissima ma inopinatamente la sua nomina, allo stato, sembra del tutto tramontata perché al centro di una guerra fra bande.
Oltre che riflettere, occorre seriamente preoccuparsi.