Una fiducia fondata

Sembra che in Italia ancora non si abbia fiducia nella collaborazione virtuosa tra pubblico e privato. Lo si vede anche nel caso delle fondazioni bancarie

Si sta parlando molto in questi giorni di un bene immateriale, per certi versi ancora più necessario dei denari che devono essere stanziati per superare i danni della pandemia: la fiducia. “Andrà tutto bene”, leggevamo sui balconi, perché avevamo bisogno di incoraggiarci di fronte allo shock dell’emergenza sanitaria e dell’isolamento. Oggi serve un altro tipo di fiducia, che tocchi dinamiche più profonde, quelle che riguardano la coesione sociale e l’immagine stessa di Paese che vogliamo costruire. A questo riguardo, un tema più che mai strategico che dovrà essere affrontato è quello del rapporto, mai davvero risolto nell’immaginario degli italiani, tra pubblico e privato.

Vado dritto al sodo: se, ad esempio, le fondazioni di origine bancaria, soggetti di diritto privato, finanziano progetti di contrasto alla povertà educativa, servizi per gli anziani, edilizia sociale, attività culturali, di ricerca e sviluppo, e se lo Stato mantiene il ruolo di controllo, perché si dovrebbe mai gridare all’affare losco?

Perché c’è ancora tanta resistenza al fatto che soggetti privati promuovano servizi d’interesse pubblico? Bisognerebbe incentivare al massimo queste iniziative, soprattutto adesso che le richieste sono così pressanti. È utopistico infatti pensare che lo Stato arrivi ovunque, e non sarebbe nemmeno preferibile, perché non è affatto detto che risponda meglio alle necessità. In ogni caso, spingere a una partecipazione dal basso significa diffondere fiducia, senso della comunità, creatività.

Le fondazioni bancarie sono una realizzazione tipicamente italiana, che affonda le sue radici nel movimento cattolico della fine dell’Ottocento. In quel periodo nascono le casse di risparmio, istituzioni senza fini di lucro che avevano lo scopo di raccogliere il piccolo risparmio, remunerarlo con investimenti poco rischiosi e distribuire gli utili per scopi caritativi. Fondamentale è stato il contributo di queste strane banche allo sviluppo italiano, che ha mostrato nei fatti come una visione ideale di bene comune è cruciale non solo per redistribuire le risorse, ma anche per aiutare una crescita sana del lavoro e dell’imprenditoria.

Tuttavia, la legge Amato del 1990 sul riordino del sistema bancario, impose lo scorporo delle casse tra azienda bancaria in forma di società per azioni (“Cassa di Risparmio SpA”, con funzione creditizia) e Fondazione Cassa di risparmio con finalità morali e benefiche. Le fondazioni sono diventate così soci determinanti di molte delle più grandi banche italiane e hanno evitato che speculatori internazionali senza scrupoli ne prendessero il possesso.

Non solo: sono entrate nel capitale della Cassa depositi e prestiti. Ripercorrendo i fasti della prima Iri di Alberto Beneduce, la Cdp sta diventando un fattore fondamentale del tentativo di resistere al declino economico. Da una parte assicura una gestione intelligente, moderna, sicura del risparmio postale degli italiani, molto più affidabile per tante famiglie di molte banche. Dall’altra, sta già sostenendo miriadi di media e grandi iniziative economiche, permettendo alle istituzioni italiane investimenti strategici che non devono essere computati nel novero del debito pubblico. È la strada scelta anche da paesi come la Germania.

Il sostegno delle fondazioni ex bancarie alla Cdp sarebbe stato impossibile senza la lungimiranza dell’Acri di Giuseppe Guzzetti, alleatosi per questo con Giulio Tremonti, dopo il duro scontro della fine degli anni Novanta in cui i partiti politici cercarono di limitare l’autonomia delle fondazioni.

Due sentenze della Corte costituzionale, la n. 300 e la n. 301 del 2003, in considerazione dell’art. 118 della Costituzione, affermano che le fondazioni sono persone giuridiche private, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale non più qualificabili come enti creditizi, ma sono enti istituzionalmente dedite a compiti di utilità sociale. La Corte, come per le Ipab, riaffermò il principio per cui la natura privata di un ente vieta che esso sia sottoposto a forme invasive di direzione statale, riconoscendo le fondazioni di origine bancaria tra i soggetti dell’organizzazione delle “libertà sociali”.

Senza queste fondamentali sentenze, le fondazioni non avrebbero potuto svolgere un altro loro ruolo fondamentale, quello di operatore strategico del welfare italiano. Molto più delle stesse autorità pubbliche queste realtà hanno utilizzato gli utili provenienti dalle banche di cui sono socie per erogare miliardi al Terzo Settore, facendo innovazione sociale e sperimentando nuove modalità di intervento: edilizia sociale, welfare di comunità, contrasto alla povertà educativa. E proprio a questo riguardo Guzzetti, in una recente intervista, ha fatto una affermazione preoccupante: “Il privato sociale è l’ultimo presidio della democrazia prima dei governi sovranisti e autoritari: non è un caso che da un paio d’anni i partiti populisti lo attacchino a ripetizione”.

Anche i recenti tentativi di discredito sono frutto di una visione ideologica che non concepisce l’esistenza di una entità privata che abbia interessi collettivi e che non sia parte dell’apparato statale. E per questo mistifica chiamando “soldi pubblici” quelli cresciuti in più di un secolo dal risparmio privato, proveniente da banche in cui lo Stato non c’entra.

La cultura del sospetto, che non ammette che ci sia una società civile che voglia auto-organizzarsi dal basso per spirito ideale, non è l’ultimo motivo per cui siamo da tempo in crisi. Per questo difendere oggi l’anomalia delle fondazioni significa difendere i corpi intermedi e la stessa concezione di democrazia.

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